No Bregovic, sì party: un Capodanno a Sarajevo

scopriamo subito che i giovani di Sarajevo hanno una
buona propensione verso l’alcolismo. Il che, ovviamente, è un’ottima notizia.
Certo, è più di questo, anche se questo ne è una parte, come dimostra una
quantità di locali, pub, discoteche, decisamente sovradimensionata rispetto a
un centro storico di dimensioni quasi paesane. La voglia di vivere e divertirsi
dei ragazzi bosniaci può apparire sorprendente, se consideriamo che si parla di
una città che vent’anni fa era sotto le bombe, e che questi con cui parliamo o
semplicemente sediamo accanto sono nostri coetanei, ma che una guerra l’ha
vissuta sul serio. Che mentre noi giocavamo con i Lego avevano addosso i
cecchini coi fucili puntati. Sarà quel desiderio di riappropriarsi della vita e
del diritto a essere giovani e spensierati che una generazione che una guerra manco
sa cosa sia difficilmente può comprendere. Allora diciamo che è un po’ la
reazione che avresti nel ritrovarti improvvisamente a letto con Scarlett
Johansson dopo avere scopato per anni con Rosy Bindi. Ecco, così anche noi
occidentali dovremmo intuire la sensazione che provano i giovani di Sarajevo
oggi.
La guerra è un fantasma che aleggia persistente, certo. Non puoi non
accorgertene, nemmeno se sei qui per caso. A ricordartelo ci sono le tombe, a
decine, a centinaia, a migliaia. Non solo nel cimitero comunale alle porte
della città; non solo in quello monumentale nel suo cuore, dove fa chinare la
testa vedere una distesa di lapidi bianche che ricoprono una collina intera e
recano tutte incisi su di sé gli stessi anni di morte. Anche la città, nelle
sue immediate periferie, è solcata da piccoli cimiteri qua e là, forse di privati
che hanno voluto tenere i propri cari vicini a casa. Il centro è ordinato,
curatissimo e perfetto, ma tutt’attorno il ricordo della guerra è vivo: gli
edifici mai ricostruiti e abbandonati, i fori dei proiettili sui muri. La
Sarajevo al tramonto del 2013, diciotto anni dopo la fine del conflitto, è comunque una
città che guarda avanti, che s’aggrappa ad ogni segno di un futuro che è
tornato ad esistere. Anche in quest'ottica va letta la festa in piazza della
notte di San Silvestro, dedicata alla prima qualificazione della nazionale
bosniaca ai Mondiali di calcio nella sua storia. A noi può sembrare banale o
eccessivo, qui lo sport è simbolo e veicolo di qualcosa di più, di una nazione che
rinasce.
Nel melting pot culturale che in dieci minuti di cammino casuale tra le vie di
Sarajevo ti fa incontrare moschee, donne col velo sui capelli, sinagoghe, chiese
cattoliche; viene da pensare che il fatto che tante diversità abbiano saputo
trovare un modo di convivere a così stretto contatto è sorprendente. “I
conflitti in realtà ci sono, solo che non si vedono”, ci spiega l’oste di una
splendida trattoria che un tempo si chiamava “To be or not to be”, mentre ora è
rimasta solo “To be”. La guerra è finita, le macerie sono state ricomposte, è
tempo di essere, la paura di non essere più appartiene al passato. Si presenta,
ma il nome proprio non me lo ricordo. Come di nessuno, qua. Niente, devo essere
impossibilitato fisicamente a ricordare e pronunciare qualsiasi parola dell’est
Europa. Ama l’Italia e l’ha visitata in lungo e in largo, anche se il prezzo eccessivo del carburante e dei musei lo sorprende ogni volta, ci racconta del ritorno del
turismo a Sarajevo, dello stupore davanti all’idea di stranieri che se
l’aspettano come un posto pericoloso e pieno di criminalità. “Ma quando mai”,
sorride.
Certo, dalle parole del tedesco che nel viaggio d'andata ci ha dato informazioni per raggiungere
l’appartamento, ne emergeva un altro ritratto. “Mi hanno sfondato la
macchina per un pacchetto di sigarette, non fatevi vedere con gli iPhone, ve li ruberanno”, diceva, mentre io immaginavo la nostra auto appoggiata su quattro
mattoni nel parcheggio del benzinaio dove ci eravamo fermati. La nebbia che ci
faceva sentire a Silent Hill non aiutava. E nemmeno ispirava fiducia il tizio
apparso da un vicolo con una cazzuola in mano la notte di Capodanno,
spiegandoci come scavalcare il muro e forzare la serratura dell’appartamento, dopo
che eravamo rimasti chiusi fuori.
Ma, in generale, da queste parti la gente, soprattutto la porzione maschile della
popolazione, è accomodante e disposta a darti una mano, anche più del
richiesto. Pure coi turisti, perlomeno quelli italiani, l’accoglienza non è la
solita da “pizza mandolino mafia”. L’avremmo dovuto intuire quando ci siamo
presentati alla dogana bosniaca senza i documenti necessari (carta verde? La
cosa più verde che avevo in tasca era la tessera del Covo). Il primo doganiere
ha stretto le spalle accontentandosi di quel che avevamo, l’altro non ha
nemmeno controllato le carte d’identità: “Ah, italiani? Andate, andate”.
Abbiamo trovato allora una città piena di giovani, che con serenità il 31 si
sono riversati in piazza per una festa partecipata ma morigerata, senza eccessi.
L’anno scorso, in piazza Maggiore a Bologna, bisognava dribblare i cocci di
vetro e chi si spaccava le Heineken da 66 in faccia, nonostante divieti e
controlli. Qui di controlli non ce ne sono, ma bottiglie che accidentalmente
incontravano teste altrui non ne ho viste. Intanto, sul palco suonano la
risposta bosniaca ai Litfiba, seguiti da un rapper terribile che mal non
starebbe accanto a Trucebaldazzi. Dopo i fuochi d’artificio alla mezzanotte,
dj-set tamarro al punto giusto.
E, poi, all’improvviso sarà partita una canzone tipo Bregovic, direte. E invece
no. La Bosnia è effettivamente l’unico posto al mondo dove avrei potuto
accettare la musica balcanica senza protestare. Eppure, in quattro giorni non ho
sentito neppure una nota di balkan, a parte un paio di pezzi remixati in salsa
dance che forse in versione originale potevano avere un ché da concerto del
Primo Maggio. Il tutto a conferma della mia ipotesi, secondo la quale la musica
balcanica non piace sul serio a nessuno. Sono soddisfatto, torno a casa con una
certezza e una vittoria: la musica balcanica ha rotto i coglioni.
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