No Bregovic, sì party: un Capodanno a Sarajevo

Quando ho detto che sarei andato a Sarajevo per Capodanno tutti mi hanno guardato con la faccia stupita che fa il tuo cane la prima volta che torni a casa ubriaco. Avrete presente, lui osserva perplesso quest’idiota ciondolante che in due ore ha buttato nel cesso milioni d’anni d’evoluzione della specie, e non riesce a darsene una spiegazione. Perché Sarajevo? Già, buona domanda. La mia risposta era quella che dà sempre chi non sa effettivamente che diavolo rispondere: tutti mi hanno detto che è stupenda. Tutti, capirai. In altre parole, entrambe le due persone che conosco che ci sono state, il che costituirebbe un dato statistico irrilevante persino per il Tg4. In realtà, per capire perché scegliere Sarajevo per Capodanno era necessario andare a Sarajevo per Capodanno. Allora l’ho fatto. E questo è quel che ho capito.
La prima cosa da rilevare è che, nonostante si tratti di una città a prevalenza musulmana, 
scopriamo subito che i giovani di Sarajevo hanno una buona propensione verso l’alcolismo. Il che, ovviamente, è un’ottima notizia. Certo, è più di questo, anche se questo ne è una parte, come dimostra una quantità di locali, pub, discoteche, decisamente sovradimensionata rispetto a un centro storico di dimensioni quasi paesane. La voglia di vivere e divertirsi dei ragazzi bosniaci può apparire sorprendente, se consideriamo che si parla di una città che vent’anni fa era sotto le bombe, e che questi con cui parliamo o semplicemente sediamo accanto sono nostri coetanei, ma che una guerra l’ha vissuta sul serio. Che mentre noi giocavamo con i Lego avevano addosso i cecchini coi fucili puntati. Sarà quel desiderio di riappropriarsi della vita e del diritto a essere giovani e spensierati che una generazione che una guerra manco sa cosa sia difficilmente può comprendere. Allora diciamo che è un po’ la reazione che avresti nel ritrovarti improvvisamente a letto con Scarlett Johansson dopo avere scopato per anni con Rosy Bindi. Ecco, così anche noi occidentali dovremmo intuire la sensazione che provano i giovani di Sarajevo oggi.

La guerra è un fantasma che aleggia persistente, certo. Non puoi non accorgertene, nemmeno se sei qui per caso. A ricordartelo ci sono le tombe, a decine, a centinaia, a migliaia. Non solo nel cimitero comunale alle porte della città; non solo in quello monumentale nel suo cuore, dove fa chinare la testa vedere una distesa di lapidi bianche che ricoprono una collina intera e recano tutte incisi su di sé gli stessi anni di morte. Anche la città, nelle sue immediate periferie, è solcata da piccoli cimiteri qua e là, forse di privati che hanno voluto tenere i propri cari vicini a casa. Il centro è ordinato, curatissimo e perfetto, ma tutt’attorno il ricordo della guerra è vivo: gli edifici mai ricostruiti e abbandonati, i fori dei proiettili sui muri. La Sarajevo al tramonto del 2013, diciotto anni dopo la fine del conflitto, è comunque una città che guarda avanti, che s’aggrappa ad ogni segno di un futuro che è tornato ad esistere. Anche in quest'ottica va letta la festa in piazza della notte di San Silvestro, dedicata alla prima qualificazione della nazionale bosniaca ai Mondiali di calcio nella sua storia. A noi può sembrare banale o eccessivo, qui lo sport è simbolo e veicolo di qualcosa di più, di una nazione che rinasce.


Nel melting pot culturale che in dieci minuti di cammino casuale tra le vie di Sarajevo ti fa incontrare moschee, donne col velo sui capelli, sinagoghe, chiese cattoliche; viene da pensare che il fatto che tante diversità abbiano saputo trovare un modo di convivere a così stretto contatto è sorprendente. “I conflitti in realtà ci sono, solo che non si vedono”, ci spiega l’oste di una splendida trattoria che un tempo si chiamava “To be or not to be”, mentre ora è rimasta solo “To be”. La guerra è finita, le macerie sono state ricomposte, è tempo di essere, la paura di non essere più appartiene al passato. Si presenta, ma il nome proprio non me lo ricordo. Come di nessuno, qua. Niente, devo essere impossibilitato fisicamente a ricordare e pronunciare qualsiasi parola dell’est Europa. Ama l’Italia e l’ha visitata in lungo e in largo, anche se il prezzo eccessivo del carburante e dei musei lo sorprende ogni volta, ci racconta del ritorno del turismo a Sarajevo, dello stupore davanti all’idea di stranieri che se l’aspettano come un posto pericoloso e pieno di criminalità. “Ma quando mai”, sorride.

Certo, dalle parole del tedesco che nel viaggio d'andata ci ha dato informazioni per raggiungere l’appartamento, ne emergeva un altro ritratto. “Mi hanno sfondato la macchina per un pacchetto di sigarette, non fatevi vedere con gli iPhone, ve li ruberanno”, diceva, mentre io immaginavo la nostra auto appoggiata su quattro mattoni nel parcheggio del benzinaio dove ci eravamo fermati. La nebbia che ci faceva sentire a Silent Hill non aiutava. E nemmeno ispirava fiducia il tizio apparso da un vicolo con una cazzuola in mano la notte di Capodanno, spiegandoci come scavalcare il muro e forzare la serratura dell’appartamento, dopo che eravamo rimasti chiusi fuori.

Ma, in generale, da queste parti la gente, soprattutto la porzione maschile della popolazione, è accomodante e disposta a darti una mano, anche più del richiesto. Pure coi turisti, perlomeno quelli italiani, l’accoglienza non è la solita da “pizza mandolino mafia”. L’avremmo dovuto intuire quando ci siamo presentati alla dogana bosniaca senza i documenti necessari (carta verde? La cosa più verde che avevo in tasca era la tessera del Covo). Il primo doganiere ha stretto le spalle accontentandosi di quel che avevamo, l’altro non ha nemmeno controllato le carte d’identità: “Ah, italiani? Andate, andate”. 

Abbiamo trovato allora una città piena di giovani, che con serenità il 31 si sono riversati in piazza per una festa partecipata ma morigerata, senza eccessi. L’anno scorso, in piazza Maggiore a Bologna, bisognava dribblare i cocci di vetro e chi si spaccava le Heineken da 66 in faccia, nonostante divieti e controlli. Qui di controlli non ce ne sono, ma bottiglie che accidentalmente incontravano teste altrui non ne ho viste. Intanto, sul palco suonano la risposta bosniaca ai Litfiba, seguiti da un rapper terribile che mal non starebbe accanto a Trucebaldazzi. Dopo i fuochi d’artificio alla mezzanotte, dj-set tamarro al punto giusto. 

E, poi, all’improvviso sarà partita una canzone tipo Bregovic, direte. E invece no. La Bosnia è effettivamente l’unico posto al mondo dove avrei potuto accettare la musica balcanica senza protestare. Eppure, in quattro giorni non ho sentito neppure una nota di balkan, a parte un paio di pezzi remixati in salsa dance che forse in versione originale potevano avere un ché da concerto del Primo Maggio. Il tutto a conferma della mia ipotesi, secondo la quale la musica balcanica non piace sul serio a nessuno. Sono soddisfatto, torno a casa con una certezza e una vittoria: la musica balcanica ha rotto i coglioni.

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