Del Cocoricò, della nostra adolescenza alla Max Pezzali e dell'ipocrisia


Premetto che non sono mai stato al Cocoricò. Se è per questo, non ho nemmeno mai provato ecstasy, pasticche varie, né le misteriose proprietà rinvigorenti che sembra avere l’acqua oligominerale che circola nei club in cui si balla fino alle otto del mattino (spoiler alert: in quali locali circolano droghe? In tutti quelli aperti dopo l'una). Ma ora non fate gli aristotelici da bar, nessun sillogismo, non è che i due fatti siano collegati. Del resto, ricordo bene i posti agghiaccianti che frequentavamo noi quando eravamo abbastanza grandi da iniziare ad andare a ballare. Che, essendo cresciuti nella profonda provincia in un’altra epoca, vuole dire quando abbiamo avuto la sospirata patente. 
C’è da dire che si guardava con una strana invidia ma anche un’altrettanto pressante incapacità di comprensione ai ragazzi più grandi che andavano in discoteca. In quelle tradizionali, intendo. Una musica che trovavamo ripugnante, oggettivamente brutta dai, e luoghi e codici sociali per noi provinciali (negli ultimi tempi in cui essere provinciali portava con sé un reale senso di cameratismo campanilista e allo stesso tempo di ghettizzazione dal resto del mondo, come dei Max Pezzali senza denti marci) decisamente respingenti. Insomma, io ricordo le prime vacanze da soli, in Riviera, dove si finiva in luoghi assurdi tipo Altromondo o Peter Pan: che ci facevamo noi, lì, cosa avevamo da raccontare, come potevamo dialogare con chi lì in mezzo ci stava bene e si trovava realmente a suo agio tra i propri simili? Ora, la percezione di un diciottenne uscito dall’Appennino a inizio anni 2000 vale quel che vale, e l’ingenuità di allora rende difficile fare bilanci credibili ed oggettivi. Io credo di droghe fosse pieno, in quelle serate, e penso che parte del nostro senso d’inadeguatezza a quel contesto fosse legato proprio all’incapacità di stabilire un rapporto con persone per cui era normale provare cose di cui noi avevamo a malapena sentito parlare. Ecstasy, mdma, ketamina? Nomi minacciosi, che facevano più paura che voglia. Non averle provate allora penso sia più legato a un senso di generale stordimento che a una reale consapevolezza. Non eravamo più maturi di altri coetanei di cui non condividevamo né comprendevamo i codici, non lo eravamo per niente. 
Così finivamo in luoghi come il Fuori Orario, il Corallo, o la sua versione estiva, il Rockville. Luoghi strani, perché erano discoteche in cui si suonava il rock, il che a quell’epoca pareva veramente una contraddizione in termini. Poi c’era un posto mitologico quale il Tempo Rock, questo locale sperduto in un luogo improponibile come Gualtieri di Reggio Emilia, che dovevi fare ore di macchina per raggiungere. Alla fine, erano tutti posti uguali, e, bisogna dire, praticamente caricaturali. Ci trovavi le umanità più stereotipate di quell’ideale nerd del frequentatore di discoteche rock all’alba del nuovo millennio: quello con la felpa dei Guns’n’Roses comprata in Montagnola, la tizia coi capelli unti e il piercing sul mento, lo stecchetto occhialuto. A ripensarci, ti chiedi: ma questa gente esisteva davvero, anche nella vita reale, o abbiamo vissuto per anni dentro ad American Pie? Il Tempo, il Corallo e i loro cloni sono luoghi dove pressoché qualsiasi adolescente emiliano che nei Duemila ascoltasse musica che contemplava una chitarra ha speso tante, decisamente troppe, ore della propria vita, una sorta di nave scuola che ha traghettato chiunque sia cresciuto tra Parma e Bologna attraverso le prime nottate fuori da casa, le prime colazioni all’alba, i primi due di picche, le prime escursioni nel mondo di alcol e droghe, sempre invariabilmente l’erba. Anche perché il codice esclusivo del noi vs. loro prevedeva l’avversione verso gli impasticcati in camicia dei locali con la selezione all’ingresso. Era una, per quanto infantile, battaglia ideologico/politica, più che cultura dello sballo. E infatti, immancabile, arrivava sempre la parte di dj-set che prevedeva la successione “Canapa” dei Punkreas, “Cannabis” degli Ska-P e “Ohi Maria” degli Articolo31, punti fissi di ogni drammatica serata che ti faceva capire che tra i tanti (?) pregi dei dj della nostra generazione, fantasia e voglia di scoprire qualcosa di nuovo non erano previsti. Discorso che si potrebbe allargare tout court alla nostra generazione in quanto tale. In tanti anni, il dj-set di quei locali non è mai cambiato di una virgola, proponendo una rigida e incrollabile selezione di Guns-Nirvana-System of a Down, e una manciata di altre canzoni su cui qualche panzone sudato e vestito come quello che all’angolo della strada ti chiede una moneta per il treno ti può saltare addosso. E sono pronto a scommettere che se ci tornassi ora, scoprirei che queste sono esattamente le stesse canzoni che tuttora sono in heavy rotation.
Più grandi e abbandonato parte del nostro incrollabile provincialismo militante, arrivati in città, s’è scoperta la versione un po’ più cool di quelle angosciose e sweat-flavoured discoteche rock. Cioè i club, tipo il Covo, tanto per dirne uno in cui ho passato più tempo che a casa mia. Finalmente un posto dove ascoltare e ballare la musica che ci piaceva davvero, senza doversi sentire quattro sfigati di provincia, vestiti per bene e non come scaricatori di barili di aringhe. E magari dove avere la sensazione di aver la possibilità di beccare anche un po’ di gnocca, già che nei locali di cui sopra la cosa era fuori questione sin dalla partenza. Certo, il risultato alla fine era invariabilmente lo stesso, ma almeno si poteva partire per la serata con un ingombrante bagaglio di buone intenzioni e programmi leggendari pronti a naufragare tragicamente al secondo gintonic. Perlomeno, ti restava sempre una storia divertente da raccontare. Del resto, ammettiamolo, non siamo mai stati tipi da rimorchio in discoteca, e magari possiamo consolarci di questo indubitabile dato di fatto dicendoci che eravamo persone che potevano far interessare una ragazza a noi avendo qualcosa da raccontarle, non manichini da una frase-acchiappo ed encefalogramma piatto a seguire. Certo, era un pregio maggiore in un periodo in cui ancora sapere una cosa qualsiasi sul mondo non significava automaticamente essere dei nerd. Nota a margine: credo che pure ai vari Covo d’Italia la musica sia sempre la stessa da un decennio, ma a trent’anni inizia a germogliare in te come una tenia il tuo Mr.Hyde fieramente conservatore, e io se a un certo punto della serata non ho ancora sentito “Don’t look back in anger” m’incazzo.
In tutto questo, come detto, io al Cocoricò non ci sono mai andato, non lo rimpiango e probabilmente non ci andrò mai, e del resto dall'idea di posti in cui dopo una certa ora la maggior parte dei clienti sono ragazzi fatti come lontre non potrei essere più lontano. Cosa ti frega se l’han chiuso, allora, chiederete. Semplicemente, non credo che il fatto che l’evento non mi tocchi personalmente sia una buona ragione per fregarmene. Per la stessa ragione per cui da maschio etero posso comunque sostenere i diritti di donne e omosessuali. Per il fatto che qui quello che è in gioco va molto al di là di un locale che chiude. Ora, io non so se in un altro contesto spazio-temporale da ragazzino avrei potuto essere uno di quelli che si sparano 0,3 grammi di mdma e ci lasciano le penne. Forse no, ma forse sì. Anche se buona parte dei reportage e dei commenti letti in giro in questi giorni ti fan venire voglia di calarti due paste così, per ripicca. Se vogliamo, quel che s’è fatto il ragazzo morto al Cocco è circa come bersi due bottiglie di vodka d’un fiato. Solo che con la vodka a capire che magari era un po’ troppo per lui ci sarebbe arrivato da solo, prima d’ammazzarsi, nel caso in questione avrebbe avuto invece bisogno di qualcuno che glielo spiegasse. Solo che non si può. Si preferisce fingere che la droga sia qualcosa legato al mondo dei tossici e delle dipendenze patologiche, a un’immagine stile Trainspotting dei drogati senza denti con un laccio al braccio coperti di merda per strada; piuttosto che affrontare la realtà. E allora vi do una notizia sensazionale: la gente si droga, da sempre. E questo non ha nulla a che fare con contesti sociali e famigliari disagiati, depressione, o altre amenità: la gente si droga perché le va. 
Questo fatto non deve piacere e non è facile da digerire per chi quel ragazzo l’aspetta a casa in ansia, ma resta un fatto. Se a quel ragazzo qualcuno avesse spiegato quanta era la dose giusta per avere lo sballo cercato ma al contempo tollerabile dal proprio corpo, che doveva bere tanto dopo averla presa, cercare un posto fresco fuori dalla confusione, se gli fosse stata data un’informazione su cosa stava facendo, forse lo avresti salvato. E invece non se ne può parlare, e allora il ragazzino si trova solo col suo sacchettino di polvere magica eccitato come un mandrillo all’idea di poter ballare tutta notte e magari trovare il coraggio di parlare con la tipa accanto, e non ha idea di come usarlo. Del resto, tu legislatore che dovresti avere competenza e autorità a lui per una vita hai fatto vedere che per te uno studente che ha tre piante in casa e un narcotrafficante del cartello della meth sono alla pari, e il ragazzino ti ride in faccia, non può più concederti alcuna credibilità e si sentirà legittimato a provare tutto, tanto quello che gli racconti son solo le balle di persone che vivono fuori dalla realtà. Certo, l’ideale sarebbe convincerli a non drogarsi e basta, ma questa è utopia, giacché tutti gli uomini di tutte le epoche han trovato un modo per sballarsi a discapito della propria salute. Poi conta che gli uomini son stupidi, gli adolescenti ancor di più, e più dici a qualcuno che non può fare qualcosa più gli vien voglia di farla (certo, questa tendenza ha anche risvolti positivi: ti han detto che la terra era il limite massimo, hai voluto andare sulla Luna e ci sei riuscito; ti han detto che volare a Londra con 9,99 euro era impossibile e han inventato Ryanair). Reprimere, proibire e trattare l’argomento come un tabù di cui non si può parlare sennò si sembra conniventi e accondiscendenti ha fatto danni terribili. È come negli Stati Uniti, dove il sesso è qualcosa che non si può nominare agli adolescenti, si preferisce far finta che nessuno scopi prima del matrimonio e parlare di contraccezione è come spingere i giovani a trasgredire. Il risultato è che i giovani il sesso lo fanno comunque ma senza saperne nulla, e nove mesi dopo la prom night ti trovi la scuola piena di bebè frignanti e ragazze madri.    
E invece no. Chiudiamo il Cocoricò, diamo un bel colpo di spugna alla nostra coscienza senza essere stati obbligati a fare qualcosa per affrontare davvero il problema. Perché bisogna che tutto cambi affinché tutto resti come prima.

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