C'era una volta... e poi l'ammazzarono. Ovvero, perché ci hanno raccontato horror da quando siamo nati?
Passiamo la vita a proteggere i nostri figli da musiche,
film, videogiochi, programmi tv, che ne potrebbero turbare l’esistenza e dare
cattivi insegnamenti. Nella convinzione che quello che guarda e gli viene
proposto dal mondo esterno sia un potenziale pericolo, qualcosa in grado di
plagiarne la mente.
Da Marilyn Manson agli horror, da Gta ai Griffin, di norma, si proibiscono ai piccoli
videogame, programmi e film che contengono immagini di violenza o sesso, che
fanno paura, che sono zeppi di parolacce. Invece, troviamo normale e, anzi,
costruttivo, far loro leggere fiabe e guardare cartoni animati della Disney.
Ma, in realtà, quelle sono molto peggio. A partire dal trauma peggiore per ogni
bambino cresciuto nel secolo passato, quello che ha devastato intere
generazioni, la prematura dipartita della mamma di Bambi, un’esperienza che per
un pargolo appare molto più angosciosa di quanto un film dell’orrore potrà mai
essere. E proprio gli aspetti orrorifici e spaventosi sono
alla base di tante delle favole più note e tramandate. Sono sotto gli occhi, ma
non li vediamo.
Del resto, oltre ad essere un meccanismo fondamentale per il
mantenimento della specie, provare paura è anche un sottile piacere inconscio,
uno dei più primordiali e innati. E sin da bambini proviamo gusto a farci spaventare.
Molte favole e giochi fanciulleschi hanno in sé il gusto dell’orrore,
dell’innominabile, dei fantasmi che non si possono dire e allora si evocano sotto
forma di gioco. Prendete Roal Dahl, le sue fiabe come filo conduttore hanno il
terrore, se non l’orrore vero e proprio. Parla di fantasmi, streghe, gremlin,
il suo Willy Wonka è un personaggio oscuro, brutale, che i bambini li odia per
davvero. Anche la versione originale di “Cenerentola” conteneva elementi terribili,
e non parlo solo del feticismo malato del Principe Azzurro. Ad esempio, le
automutilazioni: le sorelle malvagie, pur di provare a far calzare al loro
piede troppo grande la minuta scarpa di raso (com’era nell’originale dei
fratelli Grimm), si amputano dita e tallone. E alla fine i loro occhi verranno
strappati a beccate da uno stormo d’uccelli.
Per non parlare della cultura popolare. Che dire di
quella nenia della buonanotte, quella che fa “Ninna nanna ninna oh, questo
bimbo a chi lo do? Lo darò alla Befana, che lo tiene una settimana, lo darò
all’Uomo Nero che lo tiene un anno intero”. A ben vedere, stiamo cantando al
nostro bambino qualcosa di orribile, una sorta di tratta di minori come
minaccia per la cattiva condotta. La filastrocca del “Girotondo”, che tutti abbiamo
cantato almeno una volta, parla in realtà – pur senza mai nominarla apertamente
– della peste bubbonica. Il “Tutti giù per terra” finale evoca l’arrivo della
morte, e alcune varianti del gioco prevedono che il primo bambino caduto ne
toccasse un altro gridando “Ce l’hai tu”. In antichità, si riferivano alla
peste.
Ma gli esempi sono tanti. Il gioco dell’albero della cuccagna deriva dai
riti sciamanici di divinazione celeste. La favola di Pollicino e dei suoi fratelli, o
quella di Hansel e Gretel, mandati dai genitori a perdersi nella foresta,
ricordano il rito pre-latino del Ver
Sacrum, il sacrificio dei giovani e dei più deboli in tempi di carestia.
Nel Medioevo, per le popolazioni povere i figli diventavano bocche in più da
sfamare, e un peso insostenibile, e non era raro che venissero abbandonati nei
boschi, dove andavano incontro a morte certa, per fame o per mano dei briganti
che vagavano disperati e affamati. E così, proprio come Hansel e Gretel, quei
bambini diventavano spesso vittime di episodi di cannibalismo, più volte citati
anche in queste favole. In alcune versioni di Cappuccetto Rosso, la
protagonista mangia per sbaglio la carne della nonna, e poi muore. Le
molteplici fiabe su orchi e streghe cannibali (“Ucci ucci, sento odor di
cristianucci”) parlavano di qualcosa che accadeva sul serio: esseri emarginati
e asociali, che vivevano nelle foreste, come carbonai, fabbri o bracconieri, durante
le carestie hanno davvero mangiato i propri bambini, o quelli abbandonati da
altri disperati. Stragi che gli adulti non volevano ricordare le conservavano i
fanciulli, trasformate in un gioco spettrale.
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