Con un deca in tasca mi sono seduto, e ho pianto
Quando su “Con un deca” da bordo del palco dell’Unipol Arena
un cannone spara migliaia di banconote da diecimila lire col faccione di Max
Pezzali inciso sopra, colgo che ci deve essere qualcosa di sbagliato. Io le
odio, queste cose, mi dico. Ma non ci credo sul serio. Diavolo, in passato ho
lapidato i Muse per molto meno. E allora perché ‘sta cosa mi manda fuori di
testa, perché mi affanno per riuscire a prenderne una?
Il fatto è che qui c’è qualcuno che parla di me, di quel che sono stato, in
parte di quel che sono. Gli 883 hanno incarnato la parte sana del sogno
italiano, non quella fatta da Costa Smeralda, coca e minorenni ma quella della
rivincita dei perdenti, di chi è sempre stato sconfitto e non è mai stato figo,
eppure non ha mai smesso di sperare di potercela fare. Gli amici, la musica, il
calcio, un’amichetta di tanto in tanto, ti aiutano a tirare avanti. Consapevole
che, nonostante tutto, puoi avere almeno l’orgoglio di essere una brava
persona. Se sei abituato a vincere, se sei sempre stato bello e palestrato, se
eri il più popolare della scuola e hai passato l’adolescenza in un loft sui
Navigli, probabilmente Max Pezzali lo odierai. Son solo canzonette, dirai, e
storcerai il naso davanti a dodicimila persone che ne cantano ogni parola. Lui
è il paladino e l’eroe degli sfigati, dei nati perdenti e fieri di esserlo. Non
sarà un caso che tutti o gruppi che vanno sotto la definizione di indie-sfiga
sono finiti per coverizzarle.
Non importa che sia Pavia, Monzuno o Pavullo, se sei cresciuto in una città di provincia
a cavallo degli anni ’90 c’è almeno una decina di canzoni degli 883 che parlano
di te, della tua vita, di episodi che davvero sono capitati. È la popband che
meglio ha saputo rendere onore a una generazione di ragazzi che ha dovuto
vivere di velleità, perché così è la vita in provincia, e se non ci sei passato
non lo puoi capire. C’è stata una regola dell’amico che hai provato invano a
sfatare, serate in cui ti sei trovato alle tre di notte a cercare un locale
aperto perché non c’è mai un cazzo da fare in questo cazzo di città. E intanto
sognavi New York. Vedrete, vedrete.
L’operazione nostalgia non può che attecchire in una città particolarmente avvezza a vagheggiare del passato, che ricorda sognante gli anni d’oro del grande Bologna che faceva tremare il mondo. Ma come fai a resistere, anche se so inconsciamente che non sarei uno che ascolta queste cose. Ma Pezzali mi sembra un vecchio amico, informale e con l’occhio sincero. Racconta i momenti esaltanti, le piccole gioie, come quella “Sei un mito”, la più onesta e in fondo tenera idealizzazione e apologia della “botta e via”. Roba che solo chi è abituato a perdere può capire, ed emozionarsi al trasporto con cui Pezzali pronuncia e ripete la parola “figata”. “Rotta per casa di Dio”, da ragazzino la ascoltavi a basso volume perché chissà che ne avrebbe detto mamma, con tutte quelle parolacce. Dai dolori del giovane Max di "Come mai" ci siamo passati tutti, “Gli anni” è una lama che s’infila nello stomaco, con tutti quei ricordi di un’età andata. Non necessariamente migliore, ma di certo più semplice. Il campionario d’immagini che scorre sullo sfondo, che comprende “Friends”, “Ghostbusters”, “Ritorno al futuro” e “Stand by me”, è fatto apposta per far scendere la lacrimuccia. Fa quasi male, rischio il tracollo emotivo. Troppi ricordi assieme, dannazione. La nostalgia degli anni della giovinezza torna ancora nel momento da limone duro con i lenti in versione unplugged. E poi via via tutte le altre, in una festa nazionalpopolare in cui su “La dura legge del gol” non può mancare la rievocazione del Mondiale 2006, dell’eroe per caso Fabio Grosso che in questo senso a Max Pezzali tanto assomiglia. Il sogno italiano, il sogno dello sfigato.
Gli anni di che bello era il pop, allora. E chissenefrega se sono solo
canzonette, e chissenefrega se le canzoni di Pezzali fuor dagli 883 sono sciatte
e banali, a tratti imbarazzanti. ‘fanculo, inutile fare i professoroni e stare
a disquisire del valore artistico di tutto ciò. Questa è stata un’overdose pop, ma soprattutto la
rivincita di una generazione, di noi bellissimi e perdenti. Perdenti vestiti di
sogno.
Ah, missione compiuta. Alla fine ce l'ho fatta a prendere la banconota.
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