A night with Pearl Jam, il tonno della musica


Un paio di note preliminari. Uno: i quattro anni passati dall’ultima volta me l’avevano quasi fatto scordare, la scala di valutazione di una band dal vivo va da zero a Pearl Jam. Due: quelli che se ne stanno nel pit immobili rubando posto a chi vorrebbe saltare e sgomitare fino al palco meritano tutto il mio disprezzo, sono come uno che ha Scarlett Johansson sul divano che gli si struscia addosso e quando lei inizia a slacciargli la cintura le risponde “S’è fatto tardi, devo andare a casa che domani lavoro”.
Detto questo, quello dei Pearl Jam a Trieste è uno di quei concerti che ti fa dimenticare di tutto il resto, che ti fa sentire nel giusto posto nel mondo. Il problema è che ti fa anche chiedere che senso abbia tornare a guardare un qualsiasi altro live. “Perché mangiare un hamburger quando hai il tonno?”, si chiedeva a tal proposito Homer Simpson. Eddie Vedder e soci sono ancora oggi il tonno della musica live: quale altra band ti può dare concerti – peraltro impeccabili – da oltre 30 canzoni e una scaletta diversa tutte le sere, rendendo ogni show un evento? Le tre ore di uno spettacolo che sembrerebbe poter durare per sempre fanno dimenticare che rispetto alla scaletta di Milano sia mancata ad esempio “Nothingman”, personalmente l’unico rimpianto. E fanno dimenticare persino che mentre eri lì ti stavi perdendo i Rolling Stones. 
I Pearl Jam entrano sul palco addirittura con leggero anticipo, c’è ancora la luce, e attaccano con “Small Town”, confermando che anche stasera sarà una storia a sé. Ad essere replicata è l’avvio con le ballad e una “Black” sparata come a Milano subito in testa alla scaletta, scelta inusuale. Ma certo efficace, mentre il sole tramonta la sua candela a presa lenta si consuma mettendo a dura prova il cuore proprio come faceva una volta, il verso “I know someday you’ll have a beautiful life, I know you’ll be a star/in somebody else’s sky, but why can’t it be mine?” è il coltello che s’insinua nella carne, il successivo coretto “tududutududu” il sale sulle ferite. Faccio quasi fatica a ricordare tutte le canzoni suonate, di certo il finale con luci accese e “Alive”, quella “Rockin’ in the free world” che ormai è a tutti gli effetti una canzone dei Pearl Jam, usucapita da Neil Young, e l’immancabile “Yellow ledbetter”, beh, quello non si scorda.
I Pearl Jam possono avere significato tante cose diverse nella tua vita, da adolescente ti saranno serviti anche come sfogo sociale, per la tua rabbia giovanile e voglia di sentirti contro il sistema sì, ma dal sicuro di camera tua. A trent’anni puoi anche fregartene di tutto questo, lasciar perdere bandiere e pugni alzati e goderti semplicemente canzoni meravigliose e un concerto grandioso. Allo stesso modo Vedder oggi come oggi può permettersi la libertà di dire e fare quello che vuole senza preoccuparsene, di presentarsi in maglietta e braghe corte davanti a 30mila persone come quello che se ne fotte, di cantare e suonare per se stesso e per il proprio divertimento senza privare di nulla gli spettatori. Perché pochi altri danno ai propri fan tanto quanto i Pearl Jam, anche se magari si fanno un po’ attendere, come tutte le cose buone – e di cui vale la pena - della vita. Quindi, se non si fosse capito, la risposta è “Quale altra band? Nessuna”.

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