The eternal sunshine of the spotless mind (o, per dirla con Homer Simpson: “Perché tutto quello che amo brucia?”)
Come già saprete, il mondo che conoscevamo non esiste più. Mentre
si celebra l’anniversario di quel pazzo giorno in cui l’Italia sembrava pronta
a scendere in piazza perché le avevano imposto di pagare 2 centesimi una busta non
inquinante e 365 giorni dopo si festeggia compiaciuti dai balconi una stangata
sulle tasse di 1000 euro a famiglia (“le priorità di questo paese sono ridicole”,
cit.); esce l’ennesima line-up di Coachella che ci conferma di base due cose. Uno:
che da un po’ di anni uno dei festival più importanti al mondo è diventato il
party dello spring break di influencer, fashion blogger e del cda di Instagram.
Due: che, appunto, il mondo che conoscevamo
non esiste più, e sostanzialmente nella musica e nel pubblico contemporanei spazio
per rock e chitarre non ce n’è più, forse perché son poco instagrammabili. Non
bastasse questo esempio, ecco cinque dischi usciti nel 2009 - dieci anni fa, mica
in era pre-internet, dischi che abbiamo comprato o ascoltato nel pieno delle
nostre facoltà mentali e non in un nebuloso passato adolescenziale – che a
posteriori fan capire come quello fosse il canto del cigno dell’epoca in cui
eravamo cresciuti.
White Lies, To Lose My Life
Agli albori dei 2000 gli Strokes ci sconvolsero la vita, i
Libertines ci diedero una scusa per esser dei debosciati, gli Arctic Monkeys ci
dissero che potevamo andare a ballare la musica che ci piaceva. Pensavamo che
quello che chiamavamo indie rock sarebbe durato per sempre, e il debutto dei
White Lies sembrava una roba potente, quasi innovativa, con pezzi destinati a
diventare classici del genere. Dieci anni dopo, cosa è rimasto di tutto questo?
Nulla, e attorno a noi chiamano indie ciò che noi chiamavamo Kekko dei Modà.
Arctic Monkeys, Humbug
Alex Turner aveva già iniziato a mettere la crema sui
brufoli, sistemare accento e pettinatura e stava dimenticando d’essere un
cockney e imboccando la strada per i locali fighi di New York, ma la
metamorfosi avrebbe ancora richiesto tempo. Pensavamo ancora che il futuro del
guitar rock fosse in salde mani grazie a loro. Che ingenui, a riguardarci col
senno di poi.
Il Teatro degli Orrori, A sangue freddo
Rock, rock vero, duro, chitarroni distorti, testi tra
denuncia e citazioni colte. Rock italiano. Come dite? Non esiste una cosa così?
È esistita, solo che non se ne ricorda più quasi nessuno, il tempo l’ha
spazzata via.
Afterhours, Il paese è reale
In qualche modo, tutto iniziò da lì, nel bene e nel male. Il
Sanremo di un gruppo di nicchia duro e puro che ci aveva segnato l’adolescenza
come nessun altro, l’indie che entra nel mainstream, il mainstream che entra
nell’indie. Il sottotitolo della raccolta era “19 artisti per un paese
migliore?”. Date voi la risposta.
Pearl Jam, Backspacer
Penultimo disco dei Pearl Jam, in questo decennio ne han
partorito solo un altro. Per fortuna, vien da dire. “Backspacer”, pur non essendo certo un capolavoro, contiene gli
ultimi lampi d’inventiva di una folgorante carriera, di cui ha chiuso la fase
creativa (si parla di un nuovo disco nel 2019, non so se sperare sia vero). Per
fortuna ci restano i live, su quello i ragazzi han pochi rivali e non ce ne
stancheremo mai.
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