Ten


Dato che mi hanno invitato più volte a prendere parte a questa cosa dei 10 dischi che hanno avuto un impatto sulla mia vita, li raccolgo qua tutti in una volta. Un elenco non esaustivo degli album che hanno lasciato un segno nella mia esistenza, che non necessariamente coincide con quello dei miei dischi preferiti.



1.         Oasis, “(What’s the story) Morning glory?”. I Gallagher sono stati una generazione, più che una band, per chi “sognava una libertà diversa da quella americana”, due tizi venuti dal nulla che quando ottennero tutto si comportarono come avremmo fatto noi, pensando solo a godersela e sbagliando tanto. Senza spararsi in bocca, senza voler salvare il mondo, senza delirare di veganesimo, senza sposare Courtney Love. Qui ci sono canzoni come oppiacei, che, non importa quale sia il mio umore, da sempre al primo riff di chitarra mi fan stare bene, fosse anche per 4 minuti appena. E nonostante “how many special pepole change”, un paio sono legate a ricordi di momenti che rimarranno per sempre perfetti.


2.         Pearl Jam, “Ten”. A vent’anni i Pearl Jam erano praticamente un pezzo di me, non c’era una canzone che non portasse con sé significati che solo io conoscevo. “Black” continuerà sempre a commuovermi e porta con sé una carrellata di volti che ogni volta si materializzano, “Alive” lenisce quelle ferite, e questo disco è da sempre come una macchina del tempo. 


3.         Afterhours, “Hai paura del buio?”. Quando lo ascoltai per la prima volta ero in fonoteca a Pavullo, un posto di per sé fuori dal tempo, e ricordo che quando ne sentii le prime parole, una bestemmia trascinata da Manuel Agnelli con una voce distorta che aveva un che di demoniaco, fu come pugno nello stomaco, fu come un risveglio, o, se vogliamo, un cambiamento totale della mia prospettiva sulla musica. Alla fine di quelle 18 tracce, quello che pensavo di sapere sulla musica, su ciò che mi piaceva, era stato spazzato via. A tanti anni di distanza, tutto quel che chiedo ancora a questo disco è solo un pensiero superficiale che renda la pelle splendida. Senza un finale che faccia male, per una volta. 


4.         The Strokes, “Is this it”. In fondo, veniamo tutti da qui. A 17 anni rimodellò il mio concetto di musica, preludendo a un periodo in cui scoprii che si poteva andare a ballare senza dover scegliere tra posti con gente che odiavo e musica terribile o luoghi puzzolenti che ogni sabato avevano in playlist le solite tre canzoni dei Guns N’ Roses. Con un amico che oggi è sparito, ci dicevamo che la prima volta che avremmo visto gli Strokes sarebbe stato in camicia e gillet. Avvenne in tuta, scarponi da trekking e ricoperti di fango fino alla punta dei capelli. Non fu meno bello. 



5.         Pulp, “Different class”. Arrivai nel 2011 al festival di Leeds per vedere gli Strokes. Che quella sera aprirono ai Pulp, un gruppo di cui allora conoscevo tre canzoni. Fu uno dei concerti più belli della mia vita, il giorno dopo corsi in centro a comprare il disco. Ancora oggi, uno degli essenziali. 


6.         Alice In Chains, “Mtv Unplugged”. Quelli della mia generazione ricorderanno la serie degli Mtv Unplugged, alcuni restarono dei classici. Questo è probabilmente il migliore. Viscerale, emozionale e sensuale come nessuno, quanti millennials sono stati concepiti con questo disco?


7.         Blink 182, “Enema of the state”. Fu il primo album che comprai, e potrebbe bastare. Non so se lo amerei ancora altrettanto se l’avessi ascoltato a trent’anni e non a 15, ma che importa? Le estati in provincia, le gite, American Pie e Dawson’s Creek. Feels.


8.         Verdena, “Verdena”. Ricordate i tempi in cui in Italia esisteva il rock? Sembra un secolo fa. Sui banchi dell’aula di arte campeggiava quel “e anche se non c’è miele mi viene dolce”, anche se chissà cosa intendeva davvero Ferrari con quella frase. Di certo un disco che mi tenne compagnia per anni, per decine di feste dell’Unità, per lunghi viaggi in auto, in contorti dibattiti musicali nei corridoi del liceo.


9.         883, “Nord sud ovest est”. Se non siete cresciuti in provincia in un’epoca pre-Internet, se siete sempre stati i vincenti di turno e i belli del locale, Max Pezzali non lo capirete mai. Lui è stato il paladino di noi perdenti vestiti di sogno, di chi non è mai stato il migliore in nulla, di chi ha perso sempre ma ha continuato a pensare che l’importante fosse tirare dritto, coltivare le proprie piccole gioie e contare sul fatto d’essere brave persone. In questo disco c’è il miglior affresco della vita di uno qualunque in provincia, e penso che non ci sia nemmeno una frase che non racconti qualcosa da cui siamo passati. Nessuno ci ha mai raccontato con questa spietata ma benevolente chiarezza.


10.   Tool, “Lateralus”. E qui torniamo in fonoteca di Pavullo, per eccellenza il mio luogo formativo sul fronte musicale. E fu un altro album che sconvolse le mie prospettive sulla musica. Credevo di aver capito il genere musicale che mi piaceva, capii che non era necessariamente così. Capii che mi piaceva la musica, e basta.

Commenti

Post più popolari