Do you remember the first time?


Ho visto le varie liste dei dieci dischi che hanno avuto un impatto sulla vostra vita ed è evidente che tutte, la mia per prima, sono quasi interamente formate dalla musica che ascoltavamo a vent’anni o giù di lì, diciamo tra i 15 e i 25. Quelli della mia generazione hanno tutti citato qualcosa di Afterhours o Pearl Jam, quelli di quella precedente Clash o magari Led Zeppelin, e via dicendo. Quelle liste non corrispondono necessariamente a ciò che oggi preferiamo, nel frattempo abbiamo sperimentato centinaia di altre cose, generi che allora non prendevamo neppure in considerazione, e quotidianamente le nostre scelte di ascolti finiscono molto probabilmente su tutt’altro. Inconsciamente, finiamo sempre per dirci che ai nostri tempi era tutto meglio, e la musica non fa certo eccezione. Mi chiedo però spesso se diverse cose che amavo da adolescente e tutt’oggi ascolto con piacere mi avrebbero ugualmente appassionato se fossero uscite lo scorso mese. Non è forse vero, del resto, che sorrido ancora se casualmente incappo in "Wannabe" e mi viene invece l’orchite al solo sentir nominare gli One Direction? C’è davvero tanta differenza? Probabilmente no, e ad essere intellettualmente onesti dovremmo ammetterlo di tanti altri casi più dolorosi.

“Man mano che il tempo passa cominciamo a vedere l’infanzia come un paradiso perduto e la giovinezza come il tempo in cui non abbiamo saputo realizzare quel che sognavamo; dopo è troppo tardi e qualunque sciocchezza la chiamiamo esperienza”, diceva Osvaldo Soriano. In realtà, non c’è nulla di sorprendente nel fatto che restiamo emotivamente legati ai nostri ricordi musicali adolescenziali molto più di quel che razionalmente scegliamo di ascoltare successivamente. È qualcosa di abbastanza intuitivo, di cui fortunatamente la scienza ci dà riscontro. Confortandoci: ammetterlo non vuol dire doversi sentire vecchi, perché non è questione di nostalgia ma di chimica.
Sì, il legame con la musica che ascoltiamo da ragazzi è più forte che quel che creiamo con quella che ascoltiamo a qualsiasi altra età. Lo dice l’istituto neurologico di Montreal, ma è facilmente verificabile: come diverse droghe e il cioccolato, le nostre canzoni preferite stimolano le zone del cervello che producono dopamina, serotonina e ossitocina, responsabili della sensazione di piacere e rilassamento. Insomma, più una canzone ci piace, più ascoltarla ci fa stare bene. Ma questo rinforzo positivo non vale allo stesso modo per le canzoni che iniziamo ad amare da adulti, perché è tra i dodici e i ventidue anni che il cervello entra nel pieno della crescita. Alcune parti, come la corteccia prefrontale, centro dell’inibizione, non sono ancora del tutto sviluppate, mentre altre, come il sistema limbico, responsabile della sensazione del piacere, sono iper-sensibili ed eccitabili (da qui tutte le cazzate e le scelte sbagliate compiute da ragazzi lasciandosi irrazionalmente trascinare dagli eventi). Nel frattempo, agiscono gli ormoni della crescita, e tutto diventa d’importanza fondamentale: il rifiuto di un amore, una figuraccia con gli amici, un esame andato male, ci colpiscono oltre il lecito. E così, pure le canzoni. La musica che ci crea piacere in quella fase di sviluppo resta legata per sempre al nostro sistema nervoso in via di formazione e al periodo in cui si struttura la nostra personalità. E diventerà il linguaggio con cui da adulti parleremo di noi stessi per raccontarci agli altri. Non importa che i ricordi cui rimandano siano belli o brutti, anche un’esperienza negativa col tempo si anestetizza e diventa una storia da raccontare e parte di noi stessi.
Quindi, se a ogni concerto del vostro artista preferito continuate a lagnarvi del fatto che non è più quello di una volta, che s’è svenduto, sbuffando per le canzoni del nuovo disco inserite in scaletta aspettando solo quelle di vent’anni fa, prendetevela col vostro cervello.

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