One, two, three o'clock: il rock, 60 anni e nessuna voglia di pensione

Che “Rock Around the Clock” sia la canzone più importante della musica moderna? Per molti versi, è così. Era il 20 maggio 1954, una data per molti versi storica: usciva “Rock Around the Clock", a firma di Bill Haley and The Comets, già b-side del singolo "Thirteen Women (and Only One Man in Town)". Nello stesso momento, nasceva ufficialmente il rock’n’roll, e con esso la musica che avrebbe fatto sognare generazioni, la musica di cui quella odierna è figlia.





“Rock Around the Clock” è il primo brano rock della storia: con esso si inventa un genere, il rock’n’ roll, che unisce lo spensierato country-western occidentale con il sound del rhytm and blues (r’n’b, che allora non era mica Jennifer Lopez), la musica dei neri americani, che trasuda di un vago senso di dolore e solitudine dettato da una condizione di vita spesso difficile, dalla consapevolezza di essere stati strappati dalla propria terra. Il rhytm and blues nasce negli anni ’30 come sintesi delle varie componenti della musica nera, dal gospel al blues al boogie, ma ben presto iniziò ad essere ascoltata anche dai bianchi. Una forma meticcia, in cui si incontrano i tratti della tradizione musicale europea contaminati con elementi vocali e ritmici della tradizione africana.
E da esso trae le sue radici il rock’n’roll così come lo conosciamo. Non a caso, molte delle canzoni dei più famosi artisti americani anni ’50, primo tra tutti Elvis Presley, non sono che cover e riarrangiamenti di brani tradizionali r’n’b (da “Hound Dog” a “That’s all Right, Mama” a “Milkcow Blues Boogie”). Il rock’n’roll riprende quella tradizione nera e la integra con gli opposti, vale a dire il country e il folk, per creare un prodotto nuovo.
Il vero scossone, il vero punto di transizione, fu segnato comunque da quel 20 maggio di 60 anni fa. “Rock Around the Clock” spazza letteralmente via la vecchia musica leggera per adulti e fa nascere, per la prima volta nella storia, una musica pensata e realizzata appositamente per i giovani. Il rock’n’roll diventa ben presto la versione accettabile e non razzialmente connotata del rhytm and blues. "La musica popolare divenne un oggetto di identificazione per una generazione scatenata", scriveva nel 1969 Ulrich Kaiser. La cosa oggi come oggi non impressiona più di tanto: abbiamo passato l’epoca dei Beatles, la generazione dei mods aperta dagli Who, la generazione grunge e quella techno. Che la musica identifichi una generazione di giovani non è nulla di strano. Ma allora era la prima volta che accadeva. 
La rivoluzione del rock’n’roll non è quella della ribellione, ma quella della spensieratezza, del divertimento. “Il professore spiega storia e matematica, ma quello che tu vuoi è ballare”, cantava Chuck Berry in “School Days”. Testi dai contenuti allusivi alla sessualità, onomatopeici, con movenze sceniche disarticolate e indemoniate. Come dimenticare l’“A wopbopaloobopalopbamboom” di Little Richard (a proposito, il primo artista esplicitamente gay) in “Tutti Frutti”?
Una musica nuova, contagiosa, giovane, tutta da ballare al sabato sera per scordarsi della vita quotidiana. “Rock Around the Clock” ha venduto ad oggi più di 25 milioni di copie. Il suo successo non fu immediato, ma arrivò solo nel ’56, quando venne inserito nella colonna sonora de “Il seme della violenza”. Ma subito arrivò anche in Italia, dove contribuì a trasmettere la febbre del rock’n’roll. In Italia, forse più che in America, si trattò di una vera rivoluzione, culturale e sociale prima ancora che musicale: cose del genere non si erano mai sentite dalle nostre parti. Diverse le cover, da quella di Renato Carosone a quella, più tardiva, di Adriano Celentano, uno degli artisti che contribuì maggiormente a portare il rock’n’roll in Italia. Ma le fortune di questo brano non si esaurirono negli anni ’50. Nel 1974 fu inserito nella soundtrack di “American Graffiti” di George Lucas, e nel ’77 ebbe una vera e propria riedizione, quando fu scelto come sigla iniziale della serie tv più famosa di sempre, “Happy Days”.  
Il rock’n’roll, dunque, è l’origine di tutto ciò che ascoltiamo oggi. Prende il rhytm’n’blues, lo velocizza, ne enfatizza gli scatti (gli staccati), ne attenua il senso di continuità e accompagnamento, elimina le divagazioni del cantato blues. E nessuno l’ha fatto meglio di Elvis. Che conferisce al rock’n’roll un diverso atteggiamento, un connotato di energia e sensualità che travolge e spinge alla danza e al movimento. Il rock diventa sensualità seduttiva. Scrive Lucio Spaziante: “il rock è innanzitutto performance, un gesto che nelle sue forme più efficaci diventa corporale (il roteare del bacino di Elvis), fisico (la pennata di Pete Townshend degli Who), visivo (l’icona labbra-lingua di Mick Jagger e dei Rolling Stones), rituale (la chitarra incendiato sul palco di Jimi Hendrix)”.  Tutto questo nacque quel giorno di sessant'anni fa. Le prime chitarre elettriche, il primo assolo di chitarra, quella velocità e quell’incastro ritmico tra voce e batteria che prima di quel momento non si erano sentiti mai. A tutto questo si aggiunga il contorno: l’abbigliamento, la spensieratezza, l’incitazione al divertimento, la corporeità sensuale, liberata attraverso l’urlo, la predominanza assoluta della voce che porta alla compartecipazione emozionale attraverso la cantabilità dei brani. 
Senza artisti come Bill Haley, Chuck Berry, Little Richard, Elvis Presley o Jerry Lee Lewis sarebbe stata davvero tutta un’altra musica.  



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