Canzoni che vorresti avere dimenticato
Se ripenso a luoghi dell’anima come il Corallo o il
Rockville, mi piace immaginare che ancora oggi mandino in heavy rotation la
stessa, incrollabile, playlist di quando li frequentavamo noi. Una selezione
indifferente agli anni che passavano e alla contemporaneità che si ostinava a
passare le stesse canzoni dei Guns N’ Roses, System of a Down, Nirvana, e via
dicendo. Sempre quelle, sempre nello stesso ordine. Sempre che quei posti
esistano ancora, sono abbastanza convinto che quelle mura non abbiano mai udito
qualcosa uscito dopo, boh, diciamo il 2006 (spartiacque tra l’epoca a.G. e d.G.,
avanti e dopo Grosso). Quelle canzoni, comunque, le adoravamo davvero, poi
molte le abbiamo accantonate per anni e mai più estratte dal contenitore dei
ricordi. Stavano bene lì, in effetti, perché poi se anni dopo vai ad aprire il
vaso di Pandora ti aspettano sorprese sgradite: quelle canzoni erano stupide,
tanto. Ecco allora un elenco assolutamente parziale e incompleto di cose che un
tempo ci sembrarono fighissime ma che in realtà erano, beh, diciamo naif, va’.
Punkreas. Acà Toro
Alla gogna metterò una band in qualche modo iconica, di
riferimento per un movimento intero, senza bisogno di girare il dito nella
piaga scomodando altri gruppi punk imbarazzanti di alba di nuovo millennio che
potevi riconoscere all’istante perché portavano la parola punk nel nome ed
erano ossessionati da Berlusconi. Del resto non c’è modo di buttare merda su canzoni
il cui testo recita “Truzzi al rogo e punk al pogo” più di quanto non abbiano
fatto i loro autori da sé.
“Acà Toro” è una sorta di super-hit di nicchia che ha invaso
gran parte della nostra gioventù, e sono abbastanza convinto da qualche parte
ci sia ancora qualcuno che la canta e la poga. Ci sarebbero tanti problemi con
questo pezzo, a partire dai toni aggressivi che va ad assumere una protesta
altrimenti tutto sommato comprensibile contro la corrida, tra augurii di morte
e violenze verbali degne di un rappresentante d’istituto di un liceo occupato. Ma
il passaggio più esilerante è senza dubbio quando il tipo che canta, di cui una
volta sapevo perfettamente il nome e ora non ritengo valga la pena nemmeno di spendere
10 secondi per controllarlo su Google, inizia immotivatamente a gridare cose
come “Olè, Zapata, spadrillas” e altre parole spagnole a casaccio. Paella, vino
tinto, te quieto!
Ska-P. Cannabis
Scelgo questa perché l’abbiamo ballata tutti quanti, mimando
il gesto di rollare una canna (pensavate di passare inosservati?), ma avrebbero
potuto essere mille altre sul tema, che agli albori anni 2000 pareva scaldare
particolarmente i cuori. Un’ossessione ai limiti del ridicolo per il tema
droghe leggere aleggiava nell’aria, mentre oggi la cosa ci pare così
anacronistica. Quel fanatismo resta probabilmente solo nel cuore dei fuoricorso
del Dams che pensano sia loro diritto inalienabile avere una piantagione in
casa e ritengono figo passare una settimana senza uscire da una stanza
lanciandosi in improvvisati cineforum su Fritz Lang; e nei rampanti Giovanardi
convinti che spetti allo stato impedire tutto questo. A dire quanto sia fuori
dal tempo la war on drugs applicata all’erba è il fatto che si è iniziato a
discutere di legalizzazione persino in un paese ferocemente conservatore come l’Italia
(cosa che vale in ogni aspetto della vita, alcune delle liti più furiose a cui
ho assistito sono dovute a pazzi che proponevano qualche modifica alle ricette
di un nostro piatto secolare, cosa per cui appena metti piede fuori confine ti
considerano perlomeno pittoresco, altrimenti fuori di testa); dove in tema di
diritti civili o sociali siamo più o meno fermi alla legge sul divorzio, e ogni
proposta viene bocciata perché c’è sempre ben altro a cui pensare, e quindi non
mi stupisce la velocità con cui ha perso consensi l’unico governo che abbia
provato a fare qualche timido passo in questo senso da quando ho una tessera
elettorale. Tutto questo pistolotto, comunque, non giustifica l’andare in giro
tronfi a bullarsi di sapersi fare una canna come uno studente in gita in un
coffee shop di Amsterdam.
Eiffel 65. Blue
E direte, grazie al cazzo. Però questa roba la abbiamo
sinceramente apprezzata per più di un periodo della nostra vita, e la cosa non
ci fa onore. Gli Eiffel 65 sono stati forse il più ripugnante prodotto della
discografia italiana, assieme a Gigi D’Alessio e alle audiocassette dei libri
di Moccia. Ancora più inquietante il fatto che Gabry Ponte – autore della più
imbarazzante canzone dell’anno, e in un anno in cui sono usciti Rovazzi e una
cinquantina di singoli con vocal synth alla “Lean on” mica era facile – sia
riapparso per violentarci le orecchie quando avevamo abbassato la guardia; come
una malattia per cui non ti eri vaccinato quando era tempo perché i tuoi
genitori leggevano troppo il blog di Grillo o semplicemente erano dei coglioni
(scusate la ridondanza).
Negrita. Sex
Riascoltando ora uno dei brani più popolari dei Negrita, viene
da chiedersi come dei trentenni potessero avere una visione del sesso da
quindicenni/romanzo di Moccia e vantarsene pure. Una carrellata di luoghi
comuni e immagini da sit-com tale non è semplice da trovare, eh; non a caso il
verso “Altro che la musica, altro che l’America” è stato successivamente ripreso
da un altro campione del qualunquismo come Jovanotti (“Altro che musica, altro
che il Colosseo; altro che l’America, altro che l’ecstasy”), anche se nel suo
mondo da famiglia del Mulino Bianco il concetto di sesso è sempre sostituito
dal fare l’amore. Ah, stendiamo infine un velo pietoso sul verso iniziale “Fare
sesso, nascosti in un cesso”, rima baciata degna del peggior Fabio Volo.
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