And Justin for all
Per uno che giusto
un mese fa era volato dall’altra parte del mondo per la rimpatriata di Roger
Waters, Paul McCartney, Rolling Stones e altre meravigliose cariatidi rock anni
’60, ritrovarsi a un concerto di Justin Bieber è uno shock. Le 13enni, gli
urlettini, un pastone di Edm, hip hop e pop rigorosamente in playback per
lunghissimi tratti, una felpa dei Metallica ridicolmente fuori contesto. Come essere atterrato su Marte. Ma sarà stato senso del
dovere, sarà anche un po’ di curiosità, sarà che l’anagrafe suggerisce che
ormai sono gli ultimi momenti utili per sperimentare esperienze fuori dalla mia
comfort zone, ho deciso che spiare all’interno dell’Unipol Arena per osservare cosa
accade durante un live della popstar canadese fosse qualcosa da fare.
Per calarmi
nella parte sarei pure disposto a investire i canonici 6 euro in un’infame
Beck’s, ma qui nemmeno si vendono alcolici perché la media età è troppo bassa.
Mi accontento di un pacco di patatine, e mentre vado verso il bar una ragazzina
mi taglia la strada abbozzando uno “scusi” che annulla ogni residua autostima,
rendendo evidente il gap tra me che a volte rischio di definire telefilm le
serie tv e chi di Ozzy Osbourne ha sentito parlare al massimo come attore in un
proto-reality di Mtv. Altre due mi chiedono invece di far loro una foto per
Snapchat, e io mi guardo bene dal rovinare questo momento di cameratismo giovanilistico
con la vergognosa ammissione che Snapchat mica so come funziona: “What do you
mean?”. Del resto qui l’espressione “potrebbe essere mia figlia” non è tanto
per dire, e se la mia regola – non del tutto rispettata – del dare quel tipo di
confidenza solo a nate dopo il rigore di Baggio ’94, vale a dire il mio primo
ricordo calcistico, continua a valere, qua il dubbio è se abbiano visto o no
quello di Grosso.
Nel frattempo,
sul palco Bieber frantuma i timpani con un pastone sonoro a tratti al limite
della tollerabilità, mentre seguono un paio di momenti che annovero tra i più
imbarazzanti visti su un palco. Prima, quando chiede al pubblico di fargli
domande, e il tenore è del tipo: “Ti piace la pizza?”, “Cosa pensi degli
italiani?”, “Dimmi che mi ami”. Poi, quando prima di “Purpose” un po’ scocciato
chiede di fare silenzio perché deve fare un discorso molto importante. Che si
rivela essere: “Tutti abbiamo uno scopo”. Profondo. Dylan, scansati, e date un
Nobel a quest’uomo.
Andando oltre, c’è
poi da ammettere che, per dire, “What do you mean?” mica è un brutto pezzo,
anche se resta archiviato tra i guilty
pleasure, quelle cose che ti piacciono ma negherai fino alla morte che sia
così. A ben vedere, se quella canzone l’avessero scritta - diciamo - i
Disclosure, ne avremmo discusso fieri sotto a un post di Nme.
Poi il concerto
finisce, e io posso tornare a via del Pratello, ai miei bar, alle mie chitarre
e a una comfort zone che non vede l’ora di riaccogliermi. Bieber invece tornerà in Italia, a giugno, in quel
pasticciaccio brutto che è la confusionaria line-up dell’I-Day di Monza, dove
trovi Radiohead, Green Day, Linkin Park e, appunto, Bieber. Mancano giusto i
Pooh. E chissà la faccia di Thom Yorke quando gliel’han detto. Questa, tipo:
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