And Justin for all


Per uno che giusto un mese fa era volato dall’altra parte del mondo per la rimpatriata di Roger Waters, Paul McCartney, Rolling Stones e altre meravigliose cariatidi rock anni ’60, ritrovarsi a un concerto di Justin Bieber è uno shock. Le 13enni, gli urlettini, un pastone di Edm, hip hop e pop rigorosamente in playback per lunghissimi tratti, una felpa dei Metallica ridicolmente fuori contesto. Come essere atterrato su Marte. Ma sarà stato senso del dovere, sarà anche un po’ di curiosità, sarà che l’anagrafe suggerisce che ormai sono gli ultimi momenti utili per sperimentare esperienze fuori dalla mia comfort zone, ho deciso che spiare all’interno dell’Unipol Arena per osservare cosa accade durante un live della popstar canadese fosse qualcosa da fare.
Quando ho detto ai miei amici che avrei passato il sabato sera a un concerto di Justin Bieber, come prevedibile lo stigma sociale è stato fortissimo, tipo se esci a cena e dici “no, solo succo bio e seitan, per me”. Del resto, quand’avevo l’età della Belieber media, si poteva vedere un film in streaming solo 72 minuti alla volta e i gruppi punk-pop italiani avevano questa bizzarra usanza di mettere la parola punk nel proprio nome ed erano ossessionati da Berlusconi e droghe leggere. Come potrei mai capire questo livello di engagement in ragazze in così tenera età per un cinno di 22 anni? Ma in fondo anche io da bambino o poco più non vedevo l’ora di andare alle sagre paesane a vedere Cristina D’Avena e cantare la sigla dei Puffi. Ok, questa farà arrabbiare qualcuno, ma è bene precisare che non è intesa come una cattiveria, quelle sagre sono un bel ricordo della mia infanzia di provincia tra crescentine e pulcini vinti alla pesca.

Per calarmi nella parte sarei pure disposto a investire i canonici 6 euro in un’infame Beck’s, ma qui nemmeno si vendono alcolici perché la media età è troppo bassa. Mi accontento di un pacco di patatine, e mentre vado verso il bar una ragazzina mi taglia la strada abbozzando uno “scusi” che annulla ogni residua autostima, rendendo evidente il gap tra me che a volte rischio di definire telefilm le serie tv e chi di Ozzy Osbourne ha sentito parlare al massimo come attore in un proto-reality di Mtv. Altre due mi chiedono invece di far loro una foto per Snapchat, e io mi guardo bene dal rovinare questo momento di cameratismo giovanilistico con la vergognosa ammissione che Snapchat mica so come funziona: “What do you mean?”. Del resto qui l’espressione “potrebbe essere mia figlia” non è tanto per dire, e se la mia regola – non del tutto rispettata – del dare quel tipo di confidenza solo a nate dopo il rigore di Baggio ’94, vale a dire il mio primo ricordo calcistico, continua a valere, qua il dubbio è se abbiano visto o no quello di Grosso.
Nel frattempo, sul palco Bieber frantuma i timpani con un pastone sonoro a tratti al limite della tollerabilità, mentre seguono un paio di momenti che annovero tra i più imbarazzanti visti su un palco. Prima, quando chiede al pubblico di fargli domande, e il tenore è del tipo: “Ti piace la pizza?”, “Cosa pensi degli italiani?”, “Dimmi che mi ami”. Poi, quando prima di “Purpose” un po’ scocciato chiede di fare silenzio perché deve fare un discorso molto importante. Che si rivela essere: “Tutti abbiamo uno scopo”. Profondo. Dylan, scansati, e date un Nobel a quest’uomo.
Andando oltre, c’è poi da ammettere che, per dire, “What do you mean?” mica è un brutto pezzo, anche se resta archiviato tra i guilty pleasure, quelle cose che ti piacciono ma negherai fino alla morte che sia così. A ben vedere, se quella canzone l’avessero scritta - diciamo - i Disclosure, ne avremmo discusso fieri sotto a un post di Nme.
Poi il concerto finisce, e io posso tornare a via del Pratello, ai miei bar, alle mie chitarre e a una comfort zone che non vede l’ora di riaccogliermi. Bieber invece tornerà in Italia, a giugno, in quel pasticciaccio brutto che è la confusionaria line-up dell’I-Day di Monza, dove trovi Radiohead, Green Day, Linkin Park e, appunto, Bieber. Mancano giusto i Pooh. E chissà la faccia di Thom Yorke quando gliel’han detto. Questa, tipo:

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