These could be the best days of our lives. A night with The Chief
Alla fine la canzone che mi
era rimasta in testa, che continuavo a canticchiare dopo il concerto, è “Digsy’s
dinner”. Ed è strano, se pensi a uno show in cui Noel Gallagher ha ripescato “The
Masterplan”, o “Champagne Supernova”. Lascia stare il fatto che quel riempitivo
di “Definitely Maybe” dieci anni dopo avrebbe potuto benissimo essere un
singolo dei primi due dischi degli Arctic Moknkeys, lascia stare che ok,
cantata da Liam era un’altra cosa. Resta un pezzo che ho sempre amato
particolarmente, un pezzo che racconta del non voler crescere ma del doverlo
fare, un pezzo che pensavo non avrei mai ascoltato dal vivo, ballato, cantato
fino a perdere la voce, nonostante duri due minuti appena.
Bella fotografia del concerto di Noel al Fabrique di Milano. Club nuovo, buona
acustica, ma troppo piccolo per contenere l’affetto dei fan italiani per The
Chief. Che, una volta di più, si dimostra artista al top della maturità, che può
permettersi un solido presente nonostante l’ingombrantissimo passato. Se nello
scorso tour i brani Oasis erano metà della scaletta, ora sono ridotti a cinque.
Ma, a differenza dello scorso tour, al pubblico oggi va bene così. Alla fine,
per durare ancora, ciò che serve è la credibilità nell’esecuzione e la qualità
delle canzoni, non il revival di se stessi e la gloria di un tempo. Chiedere a
Liam, per averne conferma.
Noel non è un frontman, l’ha sempre detto apertamente. Lui era il tizio con la
chitarra a un lato dal palco. Lì in mezzo sembra a volte un po’ spaesato, anche
se nessuno può certamente dire che sia uno timido e modesto che fugge dai
riflettori. «Se venite per vedere me, lasciate perdere, da vedere
non c’è nulla. Se venite per cantare assieme a me, vi divertirete», aveva
spiegato a inizio tour. Ed è proprio così. Scenografia più che essenziale,
niente marchingegni strani: qui c’è solo la musica e la forza delle canzoni,
dello stare e cantare assieme che fa sentire tutti parte di una cosa sola. Alla
fine un concerto di Noel è un po’ come stare in curva durante una partita della
tua squadra del cuore. Devi potertelo permettere, di non farti aiutare da
scenografie, balzi su e giù per il palco, atteggiamenti da frontman, e lasciare
fare tutto alle canzoni, da sole. Ricordo di essere stato a vedere nel 2012 i
Radiohead, e a fine concerto alla domanda “Ti son piaciuti?” ho saputo
rispondere solo “Beh, le luci e gli schermi volanti erano belli”. Noel non
salta, Noel non mette led luminosi e robot semoventi, Noel non parla quasi, a
parte quando scherza con un fan cercando di pronunciarne il nome per dedicargli
un brano per il 23esimo compleanno. Noel canta, e fa cantare.
I brani del nuovo album convincono di più in versione live che da disco, mentre
quelli dell’esordio da solista sono stati ormai digeriti e mandati a memoria
quasi quanto i pezzi degli Oasis. Poi, certo, non si può fingere che i momenti
più coinvolgenti non siano quelli. Chi s’aspettava di risentire “Champagne
Supernova” ancora una volta dopo l’agosto 2009? Mai sorpresa fu più gradita nel
ritrovarla in scaletta nel 2015, il pezzo cui sono personalmente più legato.
Com’è che diceva Noel, quando gli facevano notare che il testo non significa
nulla? «Guarda là: ci sono 80mila persone che stanno cantando ogni singola
parola di quella canzone, credi che per loro non vogliano dire nulla?
Significano una cosa diversa per ognuno di loro». Le persone non sono più
ottanta ma tremila, ma la sostanza cambia poco. Per “Don’t look back in anger”
ogni parola è superflua, non sarà un caso se dal ’95 in poi è stata suonata in
ogni concerto. La chiusura è con “The Masterplan”, un pezzo la cui grandezza può
essere valutata dal fatto di aver compiuto l’impresa di obbligare un Gallagher ad
ammettere un errore: «Lo sbaglio più grande della mia carriera è stato usare “The
Masterplan” come b-side». Tranquilli, ha poi corretto il tiro: «Ma allora ogni
cosa che scrivevo era un classico, e credevo sarebbe stato così per sempre.
Avessimo fatto uscire “The Masterplan” al posto di “Be Here Now” avremmo vinto
il premio Nobel per la pace. Non credo ci sarebbe stata la guerra in Medio
Oriente, né l’estremismo islamico, avremmo salvato il mondo: le canzoni erano buone
a tal punto». A parte tutto ciò, “The Masterplan” resta un manifesto del
gallagherismo più puro, un riassunto di tutto ciò che la musica e i testi degli
Oasis hanno sempre raccontato, vale a dire che la vita può svoltare da un momento
all’altro, che tutti possiamo sognare ed essere felici, sta solo a noi: «Non
dico che ciò che è giusto è sbagliato, sta a noi ottenere il meglio dalle cose
che incrociano la nostra strada. Tutto ciò che è stato se n’è andato, ci sono
quattro e venti milioni di porte nell’infinito corridoio della vita».
Alla prossima, Noel. Hail to the Chief.
Commenti
Posta un commento