Yvan Eht Nioy, a night with Backstreet Boys
Ricordate quella puntata de “I
Simpson” in cui Bart, Milhouse, Nelson e Ralph fondano una boyband? Ecco, per
uno come me irrimediabilmente inflazionato dalla cultura 90’s è stato
impossibile non pensare ai Party Posse durante il concerto dei Backstreet Boys
all’Arena della Regina di Cattolica. “Incredibile, ho incontrato Milhouse!”,
gridava una caricatura di Justin Timberlake in quell’episodio. E “Incredibile,
guarda dove sono finito”, è quello che pensavo io mentre i cinque di Orlando
salivano sul palco. In effetti, un concerto dei Backstreet Boys è uno degli
ultimi posti dove avrei immaginato di ritrovarmi all’alba dei trent’anni.
Figuriamoci, il ragazzino che nel ’99 registrava “Show me the meaning of being
lonely” alla radio pensava che nel 2014 sarebbe stato sposato, con una
famiglia, un lavoro fisso. Certo, come no.
“Divertitevi come se aveste 15 anni”, invocano sul palco i Backstreet. Allora
quello è lo spirito, l’unico giusto, con cui affrontare lo show. E in un’arena
da 5-6mila persone composta quasi solo da donne, essere gli unici due a cui
piace la gnocca è senz’altro una posizione di privilegio. Ti chiedi che
sensazione di potere debbano provare quei cinque, sapendo che qualsiasi ragazza
lì dentro sarebbe loro con uno schiocco delle dita. Anche se poi, a guardarci
bene, il tempo passa per tutti, e Howie ha il doppio mento, la faccia di Kevin
sembra tenuta assieme con dei tiranti e l’uso frequente del playback è l’unico
modo per affrontare due ore di balli e di canto. E qui c’è l’effetto Party
Posse, ti chiedi se in fondo in fondo, svanita la magia, non ci sia un Ralph
Winchester pure lì in mezzo.
Mentre Nick mostra la giacca griffata Ducati e persino imbraccia una chitarra
elettrica, il ferormone sale, per poi mostrare l’istinto materno della
trentenne quando sullo schermo passa l’immagine dei Backstreet Boys di primi
anni ’90, poco più che bambini. È un party strano, un party per quindicenni
organizzato per trentenni. Perché dai, alla fine queste canzoni le abbiamo
ascoltate tutti, una quindicina d’anni fa, inutile far finta di no. Ci siamo
redenti mandando a memoria Smiths e Joy Division, ma da lì ci siamo passati. Non
rinnegarlo è un passo importante per fare pace coi nostri anni ’90. Quelle
cazzo di orecchie luminose da coniglio e fascette in testa non mancano, ma non
sono tante quante ne troveresti, che so, in un concerto di Justin Bieber o dei
One Direction. Grazie a Dio le cinne sono state a casa, la grande maggioranza
del pubblico sono trentenni o giù di lì, che quando i Backstreet Boys erano in
auge erano adolescenti. Domani si lavora, i tempi in cui luglio era sinonimo di
mattinate perse a mangiare Winner Taco e guardare “Dawson’s Creek” sono finiti.
Che i Backstreet Boys abbiano a 21 anni di distanza dagli esordi ancora tutto
questo seguito è qualcosa su cui interrogarsi, perché in fondo le boyband
nascevano per essere spremute al massimo, dare tutto e subito e poi salutare. Ma
tant’è, non a tutte le domande servono risposte. Perché allora ci si potrebbe pure
chiedere come da un concerto dei Backstreet Boys si sia usciti finendo a
parlare fino a notte di lingua aramaica e tradizioni copte con due ragazze
umbro-etiopi con un nonno tedesco nostalgico del Terzo Reich. Il che ti fa domandare
(oltre a cosa si debba fare per poter partecipare al loro pranzo di Natale, che
deve essere un vero spasso): che diavolo di senso ha giudicare le persone per
categorie e non, semplicemente, come persone?
Ah, dimenticavo. Yvan Eht Nioy
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