Uno dei traumi che mi ha segnalato che il momento del
ritorno alla vita reale era arrivato è stato scoprire di non poter più
trasformare il rusco in birra. Ho sempre pensato a quanto dovesse sentirsi fico
Gesù quando tramutava l’acqua in vino, e ora lo so. È ovvio che se ogni 20
bicchieri o bottiglie usati che raccogli da terra e porti al banco del riciclo
ottieni una birra gratis, poi passi tutti i tempi morti a mettere le mani nel
fango e raccogliere immondizia. Ed è così che abbiamo finito per diventare i netturbini
del Rock Werchter 2014, Belgio.
Che dire di un festival dove puoi comprare la kriek e che ti vende una bionda
decente a un prezzo non criminale. Che sarebbe “un ticket”, nella moneta di
Grattachecca&Fichetto Landia unica valuta accettata dentro l’area festival.
Ogni ticket vale 2,50 euro e ogni cosa da bere, mangiare, indossare, costa 1,
2, 3, 4 ticket. Sembra un dettaglio, quasi una scomodità, ma questo
accorgimento fa sì che in quattro giorni non abbia mai aspettato più di 5
minuti per fare qualsiasi cosa, con un servizio per i drink pressoché immediato
nonostante le 80mila persone. Le macchinette automatiche della redazione ci
mettono di più. E dentro al Rock Werchter tutto è iperorganizzato, il che
annulla lo spazio per fastidiosi imprevisti e ti fa sentire perfettamente a tuo
agio, a casa, protetto.
Ma non toglie il clima generale da villaggio vacanze
della musica, di amore universale e fratellanza che rende tutti amici e
rilassati. Quello che in sostanza ci porta a fare festa dentro un tendone con
20mila olandesi esultanti per il passaggio alle semifinali mondiali degli
Orange, a scherzare con loro su Balotelli, a intonare i cori da stadio italiani
che loro si fermano a cantare con noi nella versione fiamminga. Per solidarietà
o ubriachezza, non so. Così puoi sentirti libero di rispondere a chi, avendo
visto le nostre magliette rosse, ci scambia per belgi: “I’m from Italy,
coglione” (sic.).

A proposito, tra le cose imparate c’è proprio che in Olanda deve esserci una
legge che impone di indossare la maglia della nazionale durante i Mondiali,
visto che nessuno della foltissima rappresentanza olandese al festival aveva
addosso altro che le magliette da calcio della loro squadra. Uomini, donne,
bambini. Tutti. L’altra cosa che ho imparato è che c’è un motivo se tra gli
abbinamenti consigliati per la Hoegaarden non figura la mela. Del resto, tra
colazioni a base di blanche o Rodenbach grand cru e junk food, volevo comunque
cercare di evitare lo scorbuto. Missione compiuta, credo.
La prima notte prefestival per un attimo m’ero spaventato, quando arrivati al
camping ci sediamo accanto a tre ragazze e le prime parole che sentiamo sono
“Soccia che umidità”. Attraversi mezza Europa e la gente parla come al bar
sotto casa. Resteranno fortunatamente gli unici italiani incontrati, a parte
una coppia toscana sotto il palco dei Pearl Jam. Che poi ci sarebbe anche la
musica. I Pearl Jam, sotto la pioggia, appunto: epocali. Forse ancora meglio di
Trieste, con un Eddie Vedder mai visto così loquace e con voglia di
cazzeggiare. Scompare dal palco e te lo ritrovi apparire in mezzo al pubblico,
sbaglia l’attacco di “Yellow Ledbetter” e allora prova a sostituirlo con
un’improbabile cover di “Angie”. I Babyshambles, con un Pete fuckin’ Doherty
completamente fulminato che si carica durante lo show e a set concluso viene
portato via a forza perché c’era da sgombrare il main stage per il gruppo
successivo.

Poi i Major Lazer con cui sentirsi raver, gli Arctic Monkeys e un
Alex Turner che dovrebbe pettinarsi meno e suonare di più, i Franz Ferdinand, Damon
Albarn al tramonto e mille altre band prese a piccoli sorsi. Gli Mgmt dopo la
tempesta, uno dei set più divertenti, da ballare nel fango assieme a due
ragazze verso cui provare amore vero mentre saltellavano a piedi nudi nelle
pozze (anche se il mio cuore resta alla spagnola incontrata in aeroporto,
spezzato appena ho scoperto che si sarebbe fermata a Bruges). Perché in fondo “We
love rain, we love mud, we love festivals”.

Martedì gli Mgmt saranno a Bologna, ma non sarà mai uguale. Perché un festival
è musica, sì, ma soprattutto gente. Gente che vuol sentirsi amica di tutti, che
lascia a casa ogni pensiero perché la cosa più importante del mondo, l’unica
che conta, in quel momento, è essere lì, vivere ogni momento. Il lavoro, la
famiglia, le preoccupazioni, sono lontani centinaia di chilometri, sono in
un’altra dimensione. Per pensarci, c’è tutto il tempo al ritorno. Dove
t’attende la vita reale, e dove dovrai abituarti a non contare più in multipli
di 2,5.
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