Felici e perdenti: 20 anni del più stupido dei capolavori


Al contrario di un film, le regole dello scrivere dicono che bisogna partire dal concetto chiave, dal cuore della questione; in sostanza spoilerare il finale, come si è iniziato a dire negli anni ’10. E allora la sintesi è questa: dalla sua uscita nel 1999 “Enema of the state” è il manifesto di una generazione felice e che a posteriori sai esser stata sconfitta, dall’11 settembre, dalla guerra che ne è seguita, dalla crisi economica e da un mondo attorno che è diventato molto diverso da quello che allora sognava. Ma, almeno, al contrario dei propri corrispettivi del 2019, ha avuto il lusso dell’illusione, del vivere appieno gli ultimi scampoli dell’epoca più felice e spensierata della storia dell’umanità occidentale.

Scrivo con qualche giorno di colpevole ritardo del ventesimo (VENTESIMO) anniversario del disco simbolo dei Blink 182. Il punk era stato sdoganato al pop già da un po’, ormai, Offspring e Green Day andavano in heavy rotation su Mtv, musicalmente parlando non era una gran novità. Ma “Enema of the state” spazzò via dal discorso ogni velleità politica, ogni problematica generazionale che andasse oltre quei nuovi pruriti e l’ansia da prestazione. Un disco di canzoni semplici ma perfette, suonate con una forza sonora esemplare che qualsiasi lavoro pop-punk successivo ha provato a emulare, fallendo. Aveva le velleità artistiche di tre ragazzi che fanno a gara a chi fa il miglior disegno pisciando nella neve, ma era anche un capolavoro.

Avevo 14 anni e fu il primo album in supporto Cd che acquistai, lo feci quasi di nascosto, ché in copertina c’era un pornostar. Questo, assieme al retro coi tre Mark, Tom & Travis in mutande e il titolo che parlava di “clistere”, dava l’idea di quel che ci avresti trovato dentro: battute da spogliatoio, maschiliste in epoca #metoo, doppi sensi grossolani da adolescenti che ridono alla parola tette, un’ode al cazzeggio e alla noncuranza delle conseguenze delle proprie azioni. Il corrispettivo musicale di un ragazzino che si lancia dalla discesa delle scuole dentro un carrello della spesa o che negli spogliatoi rincorre i compagni con un asciugamano bagnato. L’ultimo giorno di scuola prima dell’estate, insomma, e pochissimi album raccontarono meglio e meglio s’inserirono dentro la propria generazione, quando i guai dell’essere adolescenti eran lontano anni luce dall’essere dibattiti sulla salute mentale, il revenge porn, le ansie per il futuro. Il mondo girava in funzione dell’inizio delle vacanze, degli scherzi telefonici, del divertirsi facendo a gara a chi scorreggiava più forte, riassunta alla perfezione in frasi come “Ho marinato lezione per guardare le ragazze giocare a calcio” (“Going away to college”) o nell’eterna sindrome di Peter Pan di “What’s my age again?”, in un periodo in cui essere coglioni non era poi così male, anzi. E pensavi potesse durare per sempre. Non sarebbe stato così, nel giro d’un paio d’anni quella generazione avrebbe perso la propria innocenza tra Ground Zero e Genova e quell’eterno ultimo giorno di scuola finì.
Eppure, c’era anche quello, dentro a “Enema of the state”, in un’unica canzone fuori coro. Quando arriva “Adam’s song”, è un pugno dritto allo stomaco proprio mentre sei a un party impegnato nell’ennesima partita di beer pong. Un sedicenne che racconta di come ha pianificato il suo suicidio, in modo naif, certo, ma proprio per questo più potente e diretto. “Non avevo mai pensato sarei morto da solo; ero quello che rideva più di tutti, chi l’avrebbe mai detto?” è una linea d’apertura fortissima; l’amaro realizzare che “altri sei mesi e nessuno si ricorderà di me” ne rafforza il senso d’angoscia e sconfitta, ancora di più considerando il festoso contorno. “Adam’s song” è l’improvvisa brezza fredda in una calda sera d’estate che arriva a ricordarti che prima o poi l’inverno arriverà. E forse la canzone che, al netto dei nananana, degli sfottò alle Britney e alle boyband, ha permesso a “Enema of the state” di essere l’immortale inno a una generazione felice e sconfitta che è.

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