L’innocua bugia dell’indie

C’è stato un momento, una decade fa, in cui tutti cantavamo e ballavamo spensierati canzoni di trent’anni prima che parlavano di morte e cupa disperazione, quando la sempre prolifica Albione s’inventò il revival new wave e post punk. Orfani di Ian Curtis che si riprendevano la scena nella stagione d’oro dell’indie rock, quello fatto con le chitarre, quello che allora si credeva sarebbe durato per sempre e invece s’avviava al tramonto. Con un brano di punta come “Death” che tra un synth e un chitarrone canticchiava sereno frasi tipo “I picture my own grave”, i londinesi White Lies erano di diritto nel novero delle band più importanti di quella scena, pur non realizzando mai fino in fondo la profezia di next big thing che l’allora Bibbia dell’indie britannico Nme elargiva con una certa disinvoltura. Non hanno poi raggiunto i numeri degli Editors, ad esempio, ma a dieci anni dall’esordio sono tornati, ieri in concerto al PalaEstragon per la sola data italiana del tour del quinto disco, “Five” (annuncio di oggi, raddoppierà in estate a Milano). Che alla fine, dopo lo spostamento dal più piccolo Estragon, ha riempito il nuovo tendone che sostituisce il demolito Pala Nord. Passando oltre alla location esteticamente non esattamente incantevole – alla precedente visita italiana i White Lies suonarono al castello di Ferrara, insomma, confronto impietoso – il live ci dice che i quattro di Londra il loro pubblico non l’han mai perso.


Dopo un paio di album più orientati ai sintetizzatori, i brani dell’ultimo “Five”, a partire dal singolo “Tokyo”, segnano un ritorno agli esordi aggiungendo solarità pop e sottraendo gli elementi più cupi. E funzionano. Anche se saltare e ballare su canzoni depresse non è mai stato un problema, per questo pubblico, e infatti i momenti più emotivi e fisici del concerto sono le datate 2009 “Fairwell to the fairground” e “Death”, pur eseguita rallentata. “Let’s dance to Joy Division”, diceva un’altra band di quell’inizio anni ’10 oggi fuori dai radar come i The Wombats. Che condivisero il palco coi White Lies l’ultima volta che erano passati da Bologna, nel 2011, come ricorda al PalaEstragon il cantante Harry McVeigh. Era il penultimo I-Day che si tenne all’Arena Parco Nord, quel giorno suonarono pure i Kasabian, poi gli Arctic Monkeys. Un trionfo del brit indie rock, ma se si pensa che allora un festival del genere ti costava meno di un posto tribuna per Calcutta e che oggi pure Alex Turner s’è messo a fare il crooner, sembra davvero un’altra epoca. 
Ci provano i White Lies a tenere in piedi quel suono e l’immagine di se stessi quando erano ventenni dall’umore ben intonato al grigio della loro Londra, anche se McVeigh s’è trasferito al sole della California e ha lasciato entrare il sole nelle sue canzoni. Ad accoglierli c’è un pubblico che per buona parte potrebbe essere quello di otto anni fa, ora sui 30-e-qualcosa, con l’aggiunta di smartphone e Instagram (oltre che qualche capello bianco, ammettiamolo), magliette di “Unknown pleasure” d’ordinanza e barbe. Ma c’è anche una gioventù più recente, e in tempi di synth pop con l’ammiccante aiuto di brani tipo “Tokyo” o “Believe it” chissà che non siamo agli albori di un nuovo revival.

Commenti

Post più popolari