L’innocua bugia dell’indie

Dopo un paio di album più orientati ai sintetizzatori, i brani dell’ultimo “Five”, a partire dal singolo “Tokyo”, segnano un ritorno agli esordi aggiungendo solarità pop e sottraendo gli elementi più cupi. E funzionano. Anche se saltare e ballare su canzoni depresse non è mai stato un problema, per questo pubblico, e infatti i momenti più emotivi e fisici del concerto sono le datate 2009 “Fairwell to the fairground” e “Death”, pur eseguita rallentata. “Let’s dance to Joy Division”, diceva un’altra band di quell’inizio anni ’10 oggi fuori dai radar come i The Wombats. Che condivisero il palco coi White Lies l’ultima volta che erano passati da Bologna, nel 2011, come ricorda al PalaEstragon il cantante Harry McVeigh. Era il penultimo I-Day che si tenne all’Arena Parco Nord, quel giorno suonarono pure i Kasabian, poi gli Arctic Monkeys. Un trionfo del brit indie rock, ma se si pensa che allora un festival del genere ti costava meno di un posto tribuna per Calcutta e che oggi pure Alex Turner s’è messo a fare il crooner, sembra davvero un’altra epoca.
Ci provano i White Lies a tenere in piedi quel suono e l’immagine di se stessi quando erano ventenni dall’umore ben intonato al grigio della loro Londra, anche se McVeigh s’è trasferito al sole della California e ha lasciato entrare il sole nelle sue canzoni. Ad accoglierli c’è un pubblico che per buona parte potrebbe essere quello di otto anni fa, ora sui 30-e-qualcosa, con l’aggiunta di smartphone e Instagram (oltre che qualche capello bianco, ammettiamolo), magliette di “Unknown pleasure” d’ordinanza e barbe. Ma c’è anche una gioventù più recente, e in tempi di synth pop con l’ammiccante aiuto di brani tipo “Tokyo” o “Believe it” chissà che non siamo agli albori di un nuovo revival.
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