Comunisti con la Rolls Royce

Va innanzitutto precisato che il fatto che l’opinione pubblica abbia percepito Sanremo come una sorta di Internazionale e Baglioni come un Che Guevara al botox rende di per sé l’idea di quanto a destra della destra si sia oggi spostata la pancia degli italiani. La politicizzazione della vittoria del “ragazzo” Mahmood (cit. di quello che le delusioni le sa incassare con sportività) rende comunque l’idea di un paese con livelli di livore e invidia sociale degni di quelli pronti a denunciare alle SS i vicini di casa a cui un giorno fa chiedevi in prestito lo zucchero.
Siamo palesemente regrediti rispetto al ‘99 e pure all’89: non ricordo allora nessuno che s’infuriò dando della sbarcata da un barcone, vaneggiando di sostituzione etnica, né alcun ministro che alluse al fatto che Sanremo avrebbe dovuto vincerlo un italiano doc, quando quei festival li portò a casa la figlia di madre albanese Anna Oxa. Non lo ricordo per il figlio d’un francese (“maledetti mangiaranocchie”) nato e cresciuto in Vietnam, Riccardo Cocciante; neppure quando Sanremo lo vinse un’argentina come Lola Ponce, o un altro figlio d’albanese, giusto un anno fa. Quindi sì, se pensate che Mahmood - che, per la cronaca, è italianissimo, quanto tutti i precedenti citati e quanto la mia migliore amica – non dovesse vincere il festival della canzone italiana per via dell’origine di suo padre, beh, un po’ razzisti lo siete. Lo eravate anche prima, solo che non lo sapevate, o meglio, faceva brutto dirlo mentre da qualche mese a questa parte vi sentite liberi di farne sfoggio. “No, ma guarda che è perché è uno scandalo che il televoto sia stato ribaltato dalla giuria”, dite. Ok - posto che a parer personale è una fortuna che tra i tre sul podio abbia vinto quella che certo è ben lontana da essere la nuova “Stairway to Heaven” (è pur sempre Sanremo, eh, mica il premio Tenco) ma almeno non è una cosa alla sole-cuore-amore cantata da mummie vestite da giovani – ma qui le considerazioni son due. Una, storica: il televoto sanremese venne ridimensionato per una serie di ragioni, tra cui impedire che le case discografiche incanalassero flussi anomali per favorire i propri protetti, o non avere più vincitori incoronati su un’onda emotiva momentanea poi spariti a due giorni dal festival, o casi come l’intervento per evitare la vittoria di Pupo ed Emanuele Filiberto (esempio di come quando sceglie il popolo a volte può andare anche peggio di quella volta con Barabba). Due: i votanti incazzati, Ultimo, Di Maio, se ne facciano una ragione, giuste sbagliate o migliorabili quelle regole di voto sono state le stesse dall’inizio e sono state accettate da tutti i partecipanti. Capisco sia fiato sprecato parlando con chi per anni ha berciato di presidenti del Consiglio non eletti dal popolo. E qui, infine. Il post di Di Maio sulle elite radical chic che hanno pilotato Sanremo sarebbe una delle cose più ridicole mai scritte, non fosse che sta gente governa l’Italia, che incidentalmente è il paese in cui vivo. Di Maio si comporta come quei genitori che quando il figlio prende una nota a scuola danno la colpa alla maestra, e poi la picchiano. Oltre a mostrare l’atavico disprezzo dell’idea stessa di competenza da sempre simbolo del suo partito, a partire da quell’“uno vale uno” fintamente democratico, che nasconde invece l’aberrante idea che conoscenze, esperienze, studi, qualità non valgano nulla e chiunque sia intercambiabile con chiunque altro. Sarebbe come, dico per assurdo eh, un ds sostituisse Verdi con Falcinelli pensando che i risultati non cambino.
Va bene, mi son perso e ho divagato. Chiudo di fretta, la sintesi migliore la fa la canzone più figa di questo festival: “Dio ti prego salvaci da questi giorni. Tieni da parte un posto e segnati sti nomi”. 


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