C'era una volta: l'indie da sfigati


Se più o meno avete la mia età, sono certo ricorderete quando l’indie italiano era roba da sfigati. D’accordo, allora non lo chiamavamo indie ma rock alternativo, ma arrivava dagli stessi ambienti e le stesse etichette discografiche da cui poi è spuntata fuori la nidiata di band che un tempo avrebbero riempito sì e no la sala di un centro sociale e ora fanno i numeri di pubblico allora appannaggio dei big del mainstream. L’indie è diventata la nuova musica leggera italiana, ai nostri tempi era una cosa riservata a noi nerd musicali, che non sapevamo rinunciare alle chitarre e reclamavamo gelosamente la nostra diversità. La prova plastica è vedere come se fai un dj-set le canzoni-esca, i riempipista, non sono più i soliti pezzi di Vasco e Ligabue che tutti conoscono e in fondo ad essere onesti tutti canticchiano, ma i Calcutta, i Coez, i Thegiornalisti. Noi siamo rimasti indietro, siamo rimasti fregati ancora una volta, e il nostro indie mica lo andavamo a vedere al Forum o allo stadio, bella grazia se si riempiva il Locomotiv o, ben che andasse, l’Estragon. Avrò visto gli Afterhours almeno una ventina di volte in vita mia, e mai davanti a più di quelle 2500 persone, e stiamo parlando del gruppo più noto di quella ondata. Mi rendo conto si rischi di entrare nella retorica del “una volta era tutto meglio”, ma se per scrittura Manuel Agnelli a confronto con Calcutta sembra Shakespeare e artisticamente i Giardini di Mirò paragonati ai Thegiornalisti sono i Pink Floyd, forse una ragione c’è. Il pubblico diverso, generalista, che non ha tempo o voglia di approfondire, cercare di affinare i propri gusti o accanirsi su finezze tecniche come facevamo appunto noi nerd musicali, e più semplicemente ascolta quel che gli viene proposto. Un’eccessiva ricerca dal lato dell’artista a questo punto è non solo inutile ma controproducente, in un’ottica del rapido consumo in cui frasetta da Smemoranda > elucubrazione mentale con cervellotiche metafore. La maggiore facilità e velocità d’accesso alla musica, poi, ha estremizzato il tutto: da un lato ha reso accessibili a chiunque all’istante e gratuitamente contenuti e artisti che solo un nerd musicale un tempo poteva prendersi la briga di andare a scovare perdendoci soldi e una marea di tempo; dall’altro ha fatto scendere drasticamente la soglia d’attenzione, bombardati da una sovraesposizione di contenuti si perde il gusto della scelta personale, lo skip è istantaneo se non c’è subito un motivetto-frasetta esca o una ragione esterna che abbia condotto a quella canzone. Così chi un tempo era relegato a fare la fame con label indipendenti ora riempie i palasport, e mentre la quantità s’alzava esponenzialmente, la qualità s’abbassava altrettanto rapidamente, trasformando il rock alternativo in it-pop e inglobandolo nella musica leggera italiana che va da Emma Marrone allo Stato Sociale. Con una rapida carrellata, vorrei però ricordare con nostalgia i 10 migliori dischi di quando l’indie era da sfigati.


10- Bugo, “Dal lofai al cisei” (2002)
La svolta social non gli ha forse giovato, ma per un Dente che ce la fa c’è sempre un Bugo che resta nell’anonimato. Il lisergico cantautorato nonsense delle sue produzioni più geniali in un altro contesto storico avrebbe potuto pagare.

9- Offlaga Disco Pax, “Socialismo tascabile” (2005)
La nostalgica poetica socialista, l’accento reggiano nemmeno vagamente celato, il parlato. Se c’è stato poi un synth-pop italiano, è partito da Reggio Emilia.

8- Malfunk, “Dentro” (2003)
Ci fecero pensare che il grunge non fosse morto. Lo era, ma per un po’ ci siamo divertiti a illuderci.

7- Bluvertigo, “Metallo non metallo” (1997)
Eccessivi, bizzarri, vistosi, forse troppo anni ’80, i Bluvertigo furono un’anomalia nel mercato italiano tanto legato alle comfort zone. Surreali e geniali, di loro al grande pubblico è rimasto l’ego di Morgan.

6- Teatro degli Orrori, “Dell’impero delle tenebre” (2007)
Art-rock all’italiana, è mai possibile? Un ascolto difficile, una personalità ruvida, un disco che resta un una-tantum nel rock nostrano.

5- Tre Allegri Ragazzi Morti, “La testa indipendente” (2001)
Crescere nella provincia anni ’90, l’insuccesso, quella guerra che la generazione che t’ha preceduto non riesce a capire possa essere anche personale e non è solo quella letteralmente intesa a contare, l’eroina. Toffolo e sodali al loro meglio.

4- Timoria, “Viaggio senza vento” (1993)
Quando Francesco Renga era la voce di quella che avrebbe potuto diventare la migliore rock band italiana, o quantomeno dimostrare che rock in italiano si poteva fare anche in modo diverso da Ligabue e Vasco.

3- Verdena, “Verdena” (1999)
Quando nei corridoi del liceo scoprii che esisteva una cosa come il rock italiano. Cosa volesse dire Ferrari nei suoi testi nessuno tuttora lo sa, ma che album segnante.

2- Marlene Kuntz, “Catartica” (1994)
Vi ho visti mille volte, a volte mi avete annoiato quando vi credevate i Sonic Youth, mi avete deluso con la svolta teatrale melensa, ho storto il naso a vedervi a Sanremo, ma questo resta un capolavoro del noise rock.

1-Afterhours, “Voglio una pelle splendida” (1997)
Probabilmente il miglior disco italiano dell’epoca post-cantautorale. Fine.


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