Cose brutte accadono nella nebbia
(Quel che segue è un mio racconto inedito di qualche anno fa. Ad oggi credo l'abbiano letto, o perlomeno l'abbiano avuto tra le mani, 7 persone in totale. C'entra poco con questo blog, ma penso che abbia riposato anche troppo a lungo tra le cartelle del mio computer, quindi ho deciso di prendere coraggio e che era tempo di lasciarlo andare, se qualcuno avrà la voglia d'arrivare fino in fondo. Prometto che un giorno o l'altro ne arriverà un altro)
Cose brutte accadono nella nebbia
di Luca Bortolotti
Nella
nebbia di Carvin Cape accadono cose strane. Cose brutte. Questo era ciò che
avevo imparato nella mia infanzia, la cosa più importante che abbia mai
imparato in vita mia, in verità. E questo era anche quello che mi ripeteva
sempre mia madre quando ero piccolo, per spiegarmi il motivo per il quale
quando ero in giardino a giocare sull’altalena, ai primi accenni di foschia, mi
richiamava immediatamente in casa.
Sembrava
così preoccupata, povera mamma. Credeva davvero che se fossi rimasto lì fuori,
se la nebbia fosse arrivata, inghiottendo tutto ciò che si trovava sul suo
cammino, mi sarebbe capitato qualcosa. Qualcosa di male, qualcosa di tremendo,
qualcosa che lei non riusciva neppure a dire.
«Perché
devo rientrare, mamma?» le chiedevo, tutte le volte. Anche se ormai la risposta
la sapevo perfettamente, perché, invariabilmente, era sempre la stessa da anni.
«Perché
nella nebbia accadono cose strane», diceva ogni volta, affacciandosi appena al
ciglio della porta, o, quando si mostrava davvero coraggiosa, arrivando al
massimo fino alla soglia dei pochi scalini che conducevano dal porticato di
casa al vialetto in giardino. Ma mai discendendoli, mai richiudendo la porta.
Anzi, in genere, se anche si spostava fino alla scalinata, teneva il braccio
destro teso dietro di sé in modo da essere certa che sarebbe rimasta aperta
anche se fosse arrivata una folata di vento improvvisa. Finché era lì, sotto il
porticato, si sentiva al sicuro. Da chi? Da cosa? Dalla nebbia stessa, credo.
«Che
tipo di cose, mamma?» le domandavo io ogni volta, continuando a dondolarmi
sull’altalena che il papà mi aveva costruito come regalo per il mio sesto
compleanno. Quell’altalena che mi piaceva così tanto, forse perché guardava
verso la scogliera, ed era un po’ come guardare negli occhi l’infinito, come
scrutare dentro la sua anima profonda e misteriosa. Qualche metro più in là,
appena oltre il piccolo cancello che delimitava i confini del nostro giardino,
la scogliera sprofondava per un paio di centinaia di metri, e laggiù
s’infrangevano con violenza le onde dell’oceano. Le onde che portavano via
tutto. E tutti, come quella volta in cui due bambini erano scomparsi, uno di
quei giorni di nebbia. Questa era una delle cose strane di cui parlava mia
madre, credo. Due ragazzini, amichetti curiosi e coraggiosi, senza paura di
esplorare la foschia, erano scomparsi da casa, persi nella nebbia. Nessuno
aveva avuto il coraggio di mettersi a cercarli subito. Solo dopo che la foschia
si era diradata erano iniziate le ricerche. Ma di loro, nessuna traccia. Un
paio di mesi dopo trovarono una piccola scarpa rossa in un anfratto tra le
rocce in fondo alla scogliera. Ciò che era accaduto divenne improvvisamente
chiaro. L’oceano li aveva divorati e portati con sé, ma aveva deciso di
restituire una parte di loro, così che i genitori potessero mettersi il cuore
in pace una volta per tutte. Non li avrebbero mai più rivisti. L’oceano spazza
via tutto, senza lasciare traccia. L’oceano non ha pietà, nemmeno di creature
immacolate e innocenti. Quando a Carvin Cape arrivava l’autunno, e con esso la
nebbia, il mare si faceva particolarmente violento. Sembrava quasi volesse
distruggere le rocce di quelle scogliere. Ma già allora sapevo che non ci
sarebbe mai riuscito, per quanto ci avesse potuto provare. Ma forse avrebbe
rapito e portato con sé, nel suo profondo e gelido ventre, altre vite, altre
anime innocenti. Quanto ho pregato che una di esse non diventasse mai la mia, o
quella di mamma o papà.
«Cose
brutte», ripeteva mia madre, stringendosi nelle spalle, e alzando lo sguardo
preoccupata verso il cielo grigio dietro di me, senza mai usare un’espressione
diversa. Avrebbe potuto dire ad esempio cose
cattive, cose malvagie, cose orribili. Ma non lo faceva mai.
Perché quelle che accadevano nella nebbia di Carvin Cape erano cose brutte, tutt’al più cose strane. Non c’era un altro modo per
descriverle.
Cose
brutte, sì, cose brutte. Potete scommetterci.
C’era
una domanda che a mia madre non avevo mai osato fare. Forse per non essere
ritenuto uno sciocco o uno sprovveduto, forse per paura di turbarla, forse per
timore della risposta che avrei potuto ricevere. Chi o cosa si nascondeva nella
nebbia? Perché dovevamo averne paura? Non lo sapevo, ma morivo dalla voglia di
scoprirlo. Ma mai ebbi il coraggio di fare qualcosa per trovare la risposta.
Durante
gli anni della mia infanzia, quegli anni di giri sulle giostre e salti
sull’altalena, non imparai ad andare in bicicletta. Del resto, a che sarebbe
servito se non ad ammazzarmi, in un luogo in cui c’erano più scogliere e gole
insidiose che prati?
Non
imparai a piantare una tenda, o ad accendere un fuoco. Non imparai molte altre
cose che, forse, un giorno, avrebbero anche potuto rivelarsi utili. Ma una cosa
la imparai, ed era la più importante di tutte, penso.
Imparai
che dalla nebbia bisogna stare alla larga.
Dopo
quegli anni, anni in cui cose brutte accadevano nella nebbia, anni in cui a
volte le persone entravano nella foschia e non ne uscivano più, qualche volta
ero tornato a Carvin Cape. D’estate, in genere, quando c’era il sole e la
nebbia non poteva sorprenderti da un momento all’altro. Tempi più sicuri, in
effetti.
Ma
io quell’angoscia non l’ho mai dimenticata. Non ho dimenticato l’attesa
timorosa dell’arrivo di quel manto grigio, quando si avvicinava l’autunno e il
cielo sopra Carvin Cape si faceva improvvisamente in bianco e nero. Non ho
dimenticato come a un tratto la nebbia calava sulle poche case del nostro
villaggio, ingoiando tutto e tutti. A volte saliva dall’oceano, si arrampicava
rapida su, lungo la scogliera, per poi irrompere tra le vie di Carvin Cape, nei
nostri giardini, nelle nostre auto, nelle nostre case, se non stavi attento a
chiudere ogni finestra. Non ho mai dimenticato la sensazione che mi assaliva quando
ero in giardino a giocare sull’altalena e vedevo sulle scogliere dell’altro
versante di Carvin Cape la nebbia che iniziava a salire e si avvicinava al
villaggio, come un mostro senza pietà che lento ma inesorabile incede nella tua
direzione. Non ho mai dimenticato il terrore di cui cadevo preda quando quella
nebbia pochi istanti dopo raggiungeva la cima delle scogliere, e si proiettava
verso di me, puntando dritta alla mia casa e all’altalena dove rimanevo
incollato, paralizzato dalla paura più profonda che io abbia mai provato in
tutta la mia vita. Non era ansia, perché l’ansia arriva quando non sai se ciò
che ti mette in allarme porti effettivamente con sé qualcosa di realmente
pericoloso oppure no. Era terrore, quello che provi nell’attesa di qualcosa di
brutto che sai per certo che sta per accadere. Come giocare alla roulette russa
ed essere consapevole che i colpi a vuoto sono stati sparati tutti e ora è il
tuo turno. Perché io sapevo che nella nebbia qualcosa di brutto sarebbe
accaduto, anche se non avevo idea di cosa, di preciso. No, non sono cose che
puoi dimenticare, le cose brutte che erano accadute in quegli anni. Poteva
essere che Carvin Cape fosse un posto cattivo, e quella nebbia il modo che Dio,
o chi per lui, aveva scelto per punirne gli abitanti.
Io
da lì me ne ero andato, perché, per quanto non fossi comunque in grado di
dimenticare, non potevo nemmeno vivere nel costante terrore di qualcosa che non
conoscevo, non capivo, ma sapevo essere pericoloso e, magari, persino letale.
No, non pensavo di potere fuggire dalla nebbia. Non mi illudevo, la avrei
ritrovata, o lei avrebbe ritrovato me. Ma potevo fuggire dalla nebbia di Carvin
Cape, quello sì.
Certo,
non posso negare che una volta arrivato ad Edimburgo, la prima volta che la
nebbia mi avvolse mi lasciai prendere dal panico come un poppante. Ma ben
presto capii che quella era solo
nebbia. Non era la nebbia di Carvin Cape. Nulla di cui preoccuparsi, insomma.
Così, pian piano, la mia paura cominciò ad affievolirsi. Oggi riesco
addirittura a fare una passeggiata sotto al castello immerso nella foschia più
impenetrabile senza avere crisi isteriche. Appena pochi anni fa sarebbe stato
qualcosa d’impensabile. So, però, che c’è un motivo se la nebbia di Edimburgo
ha smesso di spaventarmi, so perché ho imparato ad affrontarla. Nella nebbia di
Edimburgo non accadono cose strane, non accadono cose brutte. Solo gocce
d’acqua sospese all’altezza del suolo e giochi di luce, nient’altro, un
fenomeno meteorologico naturale che da adulto ho pure compreso nei suoi
processi chimici. A Carvin Cape, invece, le cose sarebbero andate diversamente,
ed è per questo che preferivo andarci in estate, quando la visibilità era
sempre buona e il cielo terso e pulito come avrebbe dovuto essere.
Se
qualche volta tornavo in quel villaggio dimenticato da Dio e dal resto del
mondo era solo per mia madre, per farle visita, per non lasciarla sola. Per
controllare che non le succedesse nulla di male, in fondo. Le volevo ancora
bene, anche se la vedevo così poco. Non so perché lei non avesse voluto fuggire
da Carvin Cape assieme a me, perché non lo avesse lasciato nemmeno in seguito, non
sono mai riuscito a capire fino in fondo e ad accettare del tutto il suo
morboso attaccamento a quel villaggio. Aveva paura di quella nebbia quanto e
più di me, eppure, quando io me ne ero andato, aveva insistito per rimanere lì,
da sola. Io mi trasferii da mio padre, ad Edimburgo, dove la nebbia non
divorava le persone, dove i bambini non scomparivano durante le giornate di
foschia. In città la nebbia significava solo inquinamento e rischio di
incidenti. E un po’ di malinconia. Nient’altro. Non ho più un’altalena su cui
giocare, ma se la avessi, ora la potrei usare.
Mio
padre aveva lasciato mia madre quando io avevo sette anni. Io e la mamma rimanemmo
a Carvin Cape, lui se ne andò in cerca di fortuna in città. Lo seguii qualche
anno dopo, quando la paura era diventata insopportabile, quando le cose che
accadevano nella nebbia si erano fatte troppo strane, e troppo brutte.
Ma
la mamma non venne. Non volle, punto. Mi dispiaceva lasciarla da sola, avevo
paura che le accadesse qualcosa di male. Eppure, io sapevo che dovevo partire,
non ce l’avrei mai fatta ad andare avanti così. E allora partii. Chiesi di
andare a vivere col papà, e lo ottenni. Ma non dimenticai mia madre, ogni tanto
torno a Carvin Cave a trovarla, a vedere come sta, anche se quel posto mi mette
i brividi.
Ma,
come detto, l’ho sempre fatto d’estate, quando il sole era alto in cielo,
quando le acque dell’oceano non violentavano con forza le scogliere come un
maniaco stupratore ma le accarezzavano dolcemente come un tenero amante. Solo
così mi potevo sentire al sicuro, anche se ogni volta che aprivo quel cancello
e guardavo l’altalena che cigolava, sospinta dal vento, mi assaliva un terrore quasi
infantile, di chi guarda per la prima volta qualcosa che non conosce e non può
controllare; un terrore che mi diceva di andarmene, di scappare finché ero in
tempo.
In
questa maniera le cose funzionavano, ed ero stato in grado di conciliare tra di
loro le mie paure e la necessità di mantenere un rapporto con mia madre. Un
paio di giorni all’anno glieli dovevo, in fondo era stata lei ad insegnarmi che
dalla nebbia bisogna stare alla larga. Se non fosse stato per lei, forse anche
io avrei fatto la fine di quei ragazzini…
Tre
giorni a metà luglio, ecco tutto. Questo era quello che le potevo concedere,
questo era il massimo che potessi fare. Così funzionava, funzionava per tutti
quanti.
Poi
era arrivata quella lettera. Mia madre stava male, molto male, così pareva.
Aveva urgente bisogno di vedermi, perché forse sarebbe stata l’ultima volta. Mi
aveva scritto che stava per morire, e voleva dare l’addio a suo figlio.
Ragionevole, anche se non era stata in grado di specificare nulla di più a
proposito della malattia che, evidentemente, la affliggeva. L’avrei anche
potuta chiamare al telefono, ma non era così che funzionava, tra di noi. Non
avrebbe voluto una telefonata, non ne voleva mai. Se m’interessava qualcosa di
lei, l’unica cosa che dovevo fare era andare a trovarla. Almeno, mamma era
profondamente convinta di ciò, e io non potevo fare altro che rispettarla. Mi
aveva chiesto di partire subito, perché non sapeva quanto tempo avrebbe avuto
ancora a disposizione. Ogni minuto perso avrebbe potuto essere quello che la
avrebbe lasciata morire da sola e senza vedere per l’ultima volta il suo unico
figlio. Mi chiese di partire immediatamente e io le risposi di sì, le risposi
che l’avrei fatto. Che altro avrei potuto dirle?
Così
le inviai la risposta e partii immediatamente verso Carvin Cape, senza nemmeno
avvertire mia moglie. Non ce n’era bisogno, lei era fuori città per lavoro,
quel weekend, e di certo non mi avrebbe negato quella visita. Le avrei mandato
un messaggio lungo la strada. Partii col groppo in gola e le gambe tremanti.
Non tanto perché fossi preoccupato per la sorte di mia madre, non solo, almeno.
Piuttosto, era la data segnata sull’agenda a turbarmi.
C’era
scritto 7 novembre.
Questa
volta però non sarei tornato a Carvin Cape da solo, questa volta avevo chiesto
al mio amico Frankie di farmi compagnia. Non avevo voglia di affrontare
l’autunno di Carvin Cape con me stesso come unico compagno, non me la sentivo
di ritrovarmi in quel villaggio maledetto senza nessuno con me, non a novembre.
Se a un certo punto si fosse alzata la nebbia, da solo sarei crollato, sarei
rimasto paralizzato dal terrore e mi sarei lasciato inghiottire. E a quel
punto, Dio solo sa cosa ne sarebbe stato di me. Se Frankie fosse stato al mio
fianco, invece, mi sarei sentito più tranquillo, se non altro un po’ meno
terrorizzato; anche perché forse mi sarei vergognato di avere paura, forse
avrei affrontato quella cosa come un adulto. In fondo era solo nebbia, ne avevo
vista tanta, in tanti posti. Certo, quella era la nebbia di Carvin Cape, ed era
una nebbia diversa da qualsiasi altra. Ma io che ne sapevo, in realtà? In
fondo, le cose brutte che accadevano quando saliva la nebbia le conoscevo solo
per i racconti di mia madre e della gente del villaggio. Non ci ero mai stato
dentro, non mi ero mai avventurato lungo la scogliera uno di quei tetri giorni
d’autunno, per cui non potevo dire con esattezza cosa davvero accadesse in
mezzo alla foschia, cosa si provasse a stare lì. Forse avrei solamente dovuto
affrontare i miei demoni e le mie paure più recondite. Magari avrei scoperto
che tutto quello che raccontava mia madre non era altro che un’altra versione
della leggenda dell’Uomo Nero che si nasconde dentro agli armadi dei bambini.
Magari mi raccontava tutte quelle storie solo perché non voleva che mi
avvicinassi alla scogliera o alla strada quando c’era scarsa visibilità. Avrei
potuto cadere giù nell’oceano, o forse finire sotto un’auto. E allora mi aveva
fatto credere a quella storia per prevenire il rischio. Aveva un senso. Ma
allora perché nessuno, a Carvin Cape, usciva mai durante le giornate di nebbia?
La realtà era che non avevo, né avrei mai avuto, una risposta sicura per tutto
ciò. Ma sapevo che avevo paura, sentivo che c’era per davvero qualcosa di intrinsecamente
sbagliato in quella nebbia.
«Mi
spieghi un’altra volta la ragione per la quale hai voluto che ti
accompagnassi?» mi domandò Frankie, mentre cercava goffamente di ripiegare la
cartina stradale. Era un vero amico, e apprezzavo molto il fatto che non avesse
esitato a prendersi qualche giorno di ferie pur di accompagnarmi a Carvin Cape.
Lo avevo conosciuto da solo un paio d’anni, non aveva condiviso nulla della mia
infanzia o della mia adolescenza, del mio terrore per la nebbia, della mia
vicenda famigliare, della mia separazione da mia madre; ma era comunque stata
la prima persona a cui avevo pensato quando avevo risposto alla lettera di
mamma e avevo deciso che avevo bisogno di compagnia, durante quel viaggio. Gli
avevo detto che non era la prima volta che tornavo a Carvin Cape dopo la
separazione dei miei genitori, e poi gli avevo spiegato, a sommi capi, la
ragione per la quale questa volta non avrei potuto andarci da solo. Non ero
sicuro avesse capito fino in fondo le mie parole, del resto non ero stato
prodigo di particolari. In fondo, mi vergognavo un po’ di quello che pensavo,
delle mie paure. Le paure sono una questione intima, le paure fanno sempre
vergognare, raccontate ad alta voce sembrano sempre così stupide, una cosa da
poco a cui solo tu dai un peso sproporzionato. Così, gli avevo solo accennato
che durante l’autunno Carvin Cape era un posto che mi metteva addosso troppa
angoscia ed inquietudine per poterci andare da solo.
«Sai,
nella nebbia di Carvin Cape accadono cose strane. Cose brutte», mi limitai a
rispondere, usando le parole di mia madre.
«Ti
va di raccontarmi cosa sono queste cose brutte?» incalzò lui.
Trassi
un sospiro, e strinsi il volante dell’auto più forte. Forse avevo bisogno di
confidarmi con qualcuno, e di Frankie potevo fidarmi.
«Va
bene, ti racconterò quel poco che so –, dissi, aspirando tutta l’aria che
potevo, come se dovessi raccontargli ogni cosa d’un sol fiato, finché avevo il
coraggio di farlo –. Vedi, un giorno di novembre a Carvin Cape… »
…
due ragazzini scomparvero. Erano i figli dei McFarland e dei Locke, due delle
famiglie di pescatori che abitavano nella zona bassa del villaggio, giù, in
fondo alle scogliere, lì dove il salto verso l’oceano si faceva meno brusco e
permetteva di avvicinarvisi a piccoli passi e non con un tuffo vertiginoso.
C’era un piccolo molo, qualche baracca, alcune barche. Poco di più, non era un
posto dove veniva voglia di stare, anche perché ogni volta che il mare si
faceva grosso e si abbatteva sulle coste, la vita di quelle persone era sempre
appesa a un filo. Non saprei dire quante volte le loro case siano state
spazzate via dalla tempesta, non saprei dire quante volte siano stati costretti
a ripartire da zero. Non c’era da stupirsi che non fossero riusciti ad
accumulare alcuna ricchezza: ogni volta che conquistavano qualcosa, l’oceano
glielo portava via. E quella volta aveva portato via anche i loro figli.
Erano
famiglie povere, vivevano di ciò che pescavano, non avevano molte pretese. E,
cosa peggiore, non avevano paura della nebbia. Loro non credevano, o forse non
sapevano, che cose strane, cose brutte, accadevano nella nebbia di Carvin Cape.
Probabilmente era per quello che quel giorno di inizio novembre Jimmy Mc
Farland e Robbie Locke stavano correndo col loro aquilone nella parte alta del
villaggio. Forse nessuno aveva mai raccontato loro quello che mia madre mi
ripeteva in continuazione.
Il
giorno in cui Jimmy e Robbie scomparvero per sempre era iniziato con un timido
sole, una cosa inusuale per il novembre di Carvin Cape. Non so se prima di
allora quelle cose fossero già accadute, ma fu la prima volta per me. Me lo
ricordo ancora, quel giorno, quello in cui tutto iniziò, almeno per quanto ne
ho memoria io. Non lo potrei mai dimenticare, anche se a volte la memoria si
offusca e nella mia mente si accavallano immagini incerte, come quando mischi
tra di loro ricordi appartenenti a epoche diverse, come se rimandassero tutti a
un unico fatto quando invece sono solo pezzi di un puzzle lungo tutta una vita.
C’era il sole, sì, ma anche qualcosa di altro. Qualcosa di strano nell’aria,
una brezza insolita che metteva i brividi. Come se la nebbia potesse parlarmi,
e penetrare in ogni fessura del mio io. Ma non era per il freddo, no,
quell’aria che ti scuoteva violentemente la pelle e ti entrava sin dentro alle
ossa aveva in sé qualcosa di più, una sorta di presagio. E quel presagio non
prometteva nulla di buono, preannunciava solo guai, metteva tutti in guardia
del fatto che cose strane e cose brutte stavano per avere luogo. Forse lo
sapevo già allora, forse lo avevo sempre saputo, ma fino a quel momento non me
ne ero accorto.
Jimmy
e Robbie però di tutto questo non sapevano niente, come avrebbero potuto, del
resto. Erano ingenui, e non avevano considerato l’idea di tornare a casa
neppure quando all’orizzonte aveva cominciato a spuntare la nebbia. Perlomeno,
questo è quello che immagino, sulla base di ciò che si raccontava in paese in
quei giorni. Se ne erano andati da casa nel primo pomeriggio, per giocare,
quando ancora c’era il sole. Poi, quando verso sera era scesa la nebbia, non
erano tornati. Se fossero stati a conoscenza di quelle cose brutte, ne sono
certo, avrebbero avuto abbastanza senno da sapere che era arrivato il momento
di rientrare. Ma non lo avevano fatto. Ed erano scomparsi, inghiottiti dalla
nebbia di Carvin Cape.
Iniziarono
a cercarli due giorni dopo, quando era tornata la visibilità. Ma di loro non
c’era alcuna traccia. La polizia di Carvin Cape funzionava davvero poco, a quei
tempi, e se a questo si aggiunge il fatto che tutti in paese erano tutti
convinti che la nebbia fosse in grado di fare scomparire le persone; be’, non è
che ci fossero molte speranze di vederli tornare.
E
infatti non tornarono. Mai. Dopo due mesi di ricerche, più o meno scrupolose,
la polizia si diede per vinta e nessuno cercò più i due ragazzi. La nebbia se
li era portati via, ecco tutto. E volete sapere una cosa che vi sembrerà
davvero strana? A Carvin Cape la gente era disposta ad accettare una risposta
del genere. Passò ancora del tempo, prima che le onde riportassero a riva una scarpa
rossa da bambino. A trovarla, incastrata tra due scogli, fu la stessa madre di
Jimmy, a quanto pare. Era la testimonianza che il figlio, ormai, non c’era più.
La nebbia e l’oceano se l’erano portati via, e a lei rimaneva solamente
quell’ultimo ricordo. Avrebbe dovuto farselo bastare. Il destino, la strana
sorte che aleggiava su tutta Carvin Cape, sembrava averle voluto concedere
almeno quello.
Dicono
che sopravvivere al proprio figlio sia la cosa peggiore che possa capitare nel
corso della propria vita. Il senso di vuoto, di impotenza, ma forse ancora più
l’idea di avere speso tutta la propria vita senza avere lasciato un segno,
senza avere nulla per cui essere ricordati, e nessuno che ci ricordi quando ce
ne andiamo, ecco cos’è. In fondo tutti abbiamo bisogno di sentirci importanti,
e nella maggior parte dei casi - dato che solo pochi di noi diventano rockstar,
attori, politici, sportivi famosi - l’unico modo che abbiamo a disposizione per
farlo è avere qualcuno che senta la nostra mancanza quando non ci saremo più.
E, per quello, sui figli puoi sempre contare. Ma se loro se ne vanno prima di
noi, e siamo noi a conservare il loro ricordo e non viceversa, allora è come se
la nostra vita fosse trascorsa inutilmente. È solo un sentimento egoistico di
chi sa di non contare abbastanza da meritare di essere ricordato per quel che
ha fatto, o di chi è così insicuro da sentire il bisogno che qualcuno pensi a
lui, quando non ci sarà più. Forse non sarei un buon padre, perché finirei per
pensare più a me che ai miei figli, finirei per anteporre la mia felicità alla
loro. In fondo, se è vero ciò che si dice, loro avranno tutta la vita per
essere felici da soli, senza di te. Il tuo tempo, invece, è contato, ed è
pronto a scadere da un momento all’altro. Dovrei allora rinunciare a ciò che
voglio, a ciò che non potrò più ottenere, per qualcuno che invece avrà ancora centinaia
di opportunità nel corso della propria vita? Alla fin fine, credo di no. È una
cosa così irragionevole?
Del
resto, a Carvin Cape era forse solo relativamente vero che il maggior dolore
nella vita di un uomo potesse essere sopravvivere ai suoi figli. Perché
probabilmente ormai il villaggio ci aveva fatto il callo, all’idea di perdere i
propri eredi. Segno che alla lunga puoi fare l’abitudine a qualsiasi cosa.
Quelle
scogliere alte e senza protezioni, l’oceano che inghiotte tutto e tutti senza
fare distinzioni, e soprattutto quella nebbia. I bambini sembravano essere le
sue vittime preferite. In tanti erano scomparsi, in quegli anni, durante lunghi
autunni carichi di foschia. E nessuno era stato ritrovato. Quello che la nebbia
di Carvin Cape si prendeva non lo restituiva, e a chi aspettava a casa il
ritorno del proprio figlio non restava che la tremenda angoscia di chi non sa
né mai saprà cosa sia successo alla persona che amava di più al mondo.
L’oceano, a volte, era più magnanimo, restituiva qualcosa, riportava a madri e
padri disperati qualche segno che diceva loro di smettere di cercare e di
sperare. Almeno, loro potevano avere una conclusione. Quello che era certo, era
che la ragione per la quale mia madre era tanto preoccupata se restavo troppo a
lungo in giardino, quando saliva la nebbia, era che in quei giorni i bambini di
Carvin Cape scomparivano dalle loro case, e poi di loro non si sapeva più nulla.
E tanti bambini avevano subito quella sorte. Certo, non migliaia, non
centinaia, forse neppure decine. Ma comunque troppi, per un villaggio che
contava meno di duecento anime.
Perché,
quando arrivava la nebbia, a Carvin Cape scompariva qualche bambino? Non
sempre, certo. Ma spesso. Che fine facevano, chi o cosa li portava con sé, che
sorte toccava alle loro giovani vite? Io non avevo mai avuto una risposta a
quelle domande, ma avevo paura, e sapevo che quando scendeva la nebbia era il
caso di rimanere chiusi tra le mura della nostra piccola villetta. Così come
sapevo che non avrei potuto passare tutta la mia vita in quel luogo, non avrei
mai potuto vivere tutti i miei inverni nel terrore di essere portato via dalla
nebbia di Carvin Cape.
Chi
avrebbe voluto stare, per propria scelta, in un posto come quello, del resto?
Un posto dove ogni tanto arrivava una nebbia minacciosa, carica di cattivi
presagi e cose strane, cose brutte, brutte davvero.
Una
nebbia che si cibava dei bambini di Carvin Cape.
Non
avevo mai raccontato a nessuno della nebbia di Carvin Cape, e sentire quei
racconti, quelle parole, pronunciate ad alta voce, mi creò una strana
sensazione, un brivido lungo la schiena, misto di orrore, paura e imbarazzo.
Avevano un suono strano, quelle frasi, mentre uscivano dalla mia bocca, dette
faccia a faccia a un’altra persona. Ed ero terrorizzato dal fatto che a Frankie
potessero sembrare sciocchezze, o favole nere buone giusto per spaventare i
bambini. Ero terrorizzato all’idea che potesse ridermi in faccia, una volta
finito il mio discorso. Perché a me raccontare quelle cose costava una fatica
enorme, era come estirpare una parte del mio cuore dal petto. Mentre raccontavo
quei fatti che così profondamente avevano segnato la mia infanzia, tremavo, quasi
mi veniva da piangere, per il peso che avevano quelle parole, e i ricordi che
esse evocavano all’interno del mio cuore. E avevo paura che Frankie non ne
capisse la ragione, avevo paura che ridesse delle mie ansie, che non
comprendesse quanto tutto quello che stavo dicendo fosse importante per me.
Certe volte, quello che per te ha tanto valore, che finché è dentro alla tua
mente e al tuo cuore ti sembra la cosa più importante del mondo, quando lo
condividi con altri viene ridimensionato e hai il timore che appaia come
qualcosa di banale, simile a tante altre affermazioni irrilevanti che
condiscono le nostre giornate. È questo il rischio maggiore a cui ti esponi
quando esterni agli altri le tue emozioni, che loro non capiscano quanto
contano davvero per te, e quanto ti è costato pronunciarle ad alta voce. E che
ridano. Io avevo paura che Frankie non comprendesse il perché ciò che dicevo mi
metteva ansia, e si prendesse gioco di me. Ma non lo fece. Mi stette ad
ascoltare, invece, parola per parola, e alla fine, mise una mano sulla mia
spalla e mi disse, con tono pacato, quasi fraterno:
«Capisco.
Non preoccuparti, starò con te, e non accadrà nulla di male. Non accadranno
cose brutte, questa volta».
Era
incredibile che lo conoscessi da soli due anni.
Grazie,
Frankie, pensai. Ma, Dio, quanto avrei desiderato credergli.
Arrivammo
a Carvin Cape attorno alle cinque del pomeriggio. Era un orario strano, un
orario che mi metteva un po’ d’inquietudine, perché era l’ora in cui
generalmente mia madre si affacciava dalla porta di casa per richiamarmi
dentro. Io ero sempre in giardino, mi piaceva giocare sull’altalena che papà
aveva costruito per me, e non l’avrei lasciata mai. Se non per evitare la
nebbia. Per quello avrei lasciato qualsiasi cosa, credo.
Del
resto, però, il viaggio per Carvin Cape era lungo, e gli ultimi tratti
prevedevano una strada sterrata. Per arrivare serviva tempo, e non volevo
costringere Frankie, che già era stato così gentile nell’accettare di
accompagnarmi, a una levataccia. Dovevo affrontare le mie paure, del resto.
Ormai era ora, non potevo vivere per sempre nel terrore di quella nebbia, senza
nemmeno conoscerne le ragioni esatte.
Parcheggiai
la mia auto nel cortile nel retro di quella che per anni era stata casa anche
mia, e che ora era semplicemente casa di mia madre. Prima ancora di posare
piede a terra guardai verso l’alto, per sincerarmi delle condizioni
meteorologiche. Il cielo era grigio, e il sole faceva appena un pallido
capolino da dietro le nubi. Un barlume di tetra luce che certo non mi
tranquillizzava. Ma non c’era nebbia, non ancora, perlomeno. Ma sapevo come
funzionavano le cose, a Carvin Cape. Per quanto l’assenza di foschia, anche
all’orizzonte, fosse un fattore positivo, non era in grado di rassicurarmi fino
in fondo. Quando arrivava, lo faceva repentina, s’inerpicava su per le
scogliere con la velocità di un fulmine, e inondava il villaggio in pochi
istanti. Non lasciava nessuna speranza a chi si faceva sorprendere fuori di
casa in quel momento. Le bastavano pochi attimi e tutto era oscuro, tutto era
sommerso dal suo bianco lattiginoso, in cui ogni cosa si confonde, in cui ogni
cosa si perde. A volte per sempre.
Deglutii
rumorosamente, con il cuore pesante e le gambe tremolanti, e finalmente scesi
dall’auto, richiudendo lo sportello dietro di me. Ero di nuovo a Carvin Cape,
ero di nuovo in quella Carvin Cape,
perché la Carvin Cape autunnale è un altro posto rispetto a quella estiva.
Tutto è diverso. I colori, gli odori, i rumori. Che ci sia qualcosa di strano,
qualcosa di sbagliato, lo percepisci nell’aria. Ecco, d’inverno a Carvin Cape
nell’aria sentivi qualcosa che d’estate non c’era. Una sensazione,
un’intuizione, un brivido. Avvertivi l’odore acre del pericolo, della morte che
si avvicina, tutte cose che durante le brevi estati scomparivano, assieme alla
nebbia, portandosi via anche il senso di precarietà, paura, angoscia.
Per
la prima volta tornavo a conoscere quella parte del paese in cui ero cresciuto,
quella parte che avevo provato a escludere per sempre dalla mia vita. Fu come
se si trattasse della prima volta che rimettevo piede a Carvin Cape da quando
avevo dieci anni. E la cosa mi terrorizzò.
Guardai
attorno a me, il campo dietro casa, le pareti della piccola villetta dei miei,
il vecchio albero di mele al suo fianco. Sì, erano gli stessi di sempre, gli
stessi di ogni estate, ma c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più.
Il
campo era incolto, perché in quei tempi nessuno aveva molta voglia di stare ore
lì fuori a tagliare il prato, col rischio di venire sorpreso dalla nebbia, e
una leggera brezza sospingeva l’erba, che ballava un’inquietante danza che
presagiva solo guai. Le pareti di casa sembravano più alte e minacciose, si
stagliavano verso un cielo grigio, un cielo che sembrava voler lanciare come un
avvertimento a tutti coloro che riposavano sotto il suo soffitto. E l’albero…
be’, l’albero quel giorno sembrava semplicemente morto. Un tronco secco e
spoglio. Lo dovetti guardare più volte per riuscire a capire se ciò che vedevo
esisteva anche nella realtà, oltre che dentro la mia testa. Il vecchio faggio
che con le sue fronde durante l’estate nascondeva le finestre del retro di casa
mia, quasi a proteggerla da occhi indiscreti, ora era completamente spoglio, e
il tronco e i rami erano… erano, be’, sì, neri, come se fosse carbonizzato.
Sembrava un corvo nero del malaugurio, e i suoi rami adunchi, secchi e spogli,
erano i suoi artigli. Ci voleva afferrare, ci voleva ferire, ci voleva
lentamente strappare le membra per farvi banchettare i suoi figli. Ma no, no,
non era vero. L’albero non era nero, come avrebbe potuto esserlo? Guardai
meglio, e capii che la sua corteccia aveva il colore che avrebbe dovuto avere.
Nulla di strano, nemmeno nel fatto che non avesse più neppure una foglia, al
contrario di come lo ricordavo. Era pur sempre novembre, no?
Sceso
dall’auto e chiusa dietro di me la portiera rimasi per qualche istante, non
saprei dire quanto lungo, immobile in piedi, ad ascoltare il rumore delle
fronde sospinte dal vento, e a farmi cullare dalla brezza che saliva dall’oceano.
Un brivido mi percorse, seguendo il cammino dell’aria che avvolgeva il mio
corpo in un gelido abbraccio. Ma non era freddo. Era paura. Mi resi conto di
non potermi muovere, come se i miei piedi fossero inchiodati al terreno. Trassi
un profondo sospiro, ma non servì a calmarmi. Non mi sentivo così da quando
avevo nove anni, dagli ultimi inverni a Carvin Cape. Una sensazione che non
avrei mai più voluto provare. E, invece, eccola. Mi ricordai di quando mia
madre mi chiamava in casa, mentre arrivava la nebbia. Io scendevo
dall’altalena, e guardavo alle mie spalle, solo per vedere la foschia incombere
su di me. E allora non riuscivo più a muovermi, non potevo proprio spostare un
arto. A risvegliarmi da quello stato di trance
era mia madre, con le sue grida. Aveva la stessa efficacia di una secchiata di
acqua ghiacciata mentre stai dormendo. Improvvisamente, tornavo a rendermi
conto di cosa stava accadendo intorno a me, e soprattutto mi rendevo conto che
mi sarebbe decisamente convenuto muovermi e rientrare in casa.
In
quel momento avrei avuto bisogno delle grida di mia madre, altrimenti forse non
sarei mai riuscito a spostarmi da lì, e avrei passato il resto della giornata
ad aspettare l’arrivo della nebbia impalato al fianco della mia auto. Ma mia
madre non c’era. C’era però Frankie, e ci pensò lui a risvegliarmi.
«Ehi,
tutto bene?» mi domandò, afferrandomi energicamente a una spalla.
«S…
sì sì, certo», risposi io, scuotendo la testa come per riguadagnare lucidità.
Ma la realtà era che non andava bene per niente. La testa mi girava come se
fossi appena sceso da una giostra, o come se fossi stato ubriaco. In realtà,
era tutta colpa della paura. La dannata paura che blocca ogni essere umano, che
ci fa perdere le migliori occasioni della vita, che ci costringere a vivere nel
rimpianto. Quante cose avremmo potuto fare in più, quante volte avremmo potuto
fare la scelta giusta, se solo non avessimo avuto paura. La paura ci rende
schiavi di noi stessi, e ci fa accettare di buon grado di essere messi in
schiavitù dagli altri. Certo, è vero anche che a volte la paura è l’unica cosa
che ci impedisce di fare cose stupide, cose molto
stupide. Cose come andare a Carvin Cape a metà novembre, ad esempio. Ecco,
quella sì che era una cosa stupida. Lo avevo sentito dire da qualche parte, che
la paura è il più antico dei sentimenti umani, e la paura maggiore è quella
dell’ignoto. E forse era proprio quella la chiave per capire il perché la
nebbia di Carvin Cape mi spaventava in quella maniera. In fondo, non sapevo
cosa accadesse esattamente quando ci si perdeva in quella foschia lattiginosa
che inghiottiva tutto, non lo avevo mai saputo né scoperto. Tutto ciò di cui
ero a conoscenza era che nella nebbia di Carvin Cape accadono cose strane. Cose
brutte. E questo mi bastava per esserne
terrorizzato.
«Che
dici, andiamo da tua madre?» mi chiese Frankie, stringendomi la spalla. «Sembra
che il cielo stia preparandosi a un temporale, sarà meglio entrare».
Deglutii
a fatica e guardai in alto. Frankie aveva ragione. Il cielo si era fatto
minaccioso, grigio e senza uno spiraglio di luce, come in un film in bianco e
nero. L’aria soffiava più forte, lo potevo notare dall’erba e dalla cima degli
alberi tutti attorno. Ma quello su cui Frankie si sbagliava, e io lo sapevo sin
troppo bene, era ciò che quel cielo avrebbe dovuto presagire. Non un temporale,
ma l’arrivo della nebbia. Era sempre così, quando la nebbia di Carvin Cape
stava per invadere il villaggio, non mi potevo sbagliare. Era come il
materializzarsi di tutti i miei incubi, delle mie paure d’infanzia.
Era
il caso di andare, allora, non avrei mai voluto farmi sorprendere dalla nebbia
in giardino. Ci dirigemmo verso l’ingresso, e nel farlo diedi un ultimo sguardo
dietro di me. Vidi il cielo buio e minaccioso, vidi l’erba, alta e mossa dal
vento, e il prato che sembrava un mare verde in tempesta.
E
poi, vidi il vecchio faggio. Ora era di nuovo nero.
Salire
i quattro gradini che conducevano alla piccola veranda di casa mia mi provocò
una strana emozione. Lo avevo fatto centinaia di volte, ma questa era del tutto
diversa. Era come se la casa a cui facevo visita una volta l’anno durante
l’estate fosse collocata in uno spazio e un tempo completamente altri, quasi
una dimensione parallela.
Ad
ogni passo sentivo come se mi stessi avvicinando a qualcosa di brutto, come una
verità che non volevo conoscere, una realtà che non ero pronto ad affrontare.
Non capivo le ragioni di tutto quello. Avevo paura della nebbia che di lì a
poco avrebbe divorato tutto e tutti, ma non volevo nemmeno entrare dentro
quella casa, per timore di scoprire qualcosa che avrei preferito continuare a
ignorare. Per questo il mio passo era incerto e tremolante. Per questo salire
tre gradini mi risultava faticoso quanto scalare una montagna.
Al
secondo gradino mi fermai, appoggiandomi al corrimano, e chinai la testa verso
il basso, a riprendere il fiato, come dopo una lunga corsa. Girai la testa
dietro di me. Guardai il vialetto ghiaioso che conduceva fino alla veranda e
alla porta alla quale si affacciava sempre mia madre per urlarmi di rientrare,
in giornate tanto simili a quella. Mi sembrava quasi di rivederla. Proprio in
quel momento, anzi, l’avevo sotto gli occhi, come fossi tornato indietro nel
tempo. Era lì, giovane, col suo grembiule bianco sporco di marmellata, per l’ennesima
torta appena preparata, una camicia vecchio stile e i capelli neri raccolti
dietro la testa con un’ingombrante spilla di madreperla. Guardava preoccupata
verso il cielo scuro, e mi urlava di rientrare, mentre io volevo giocare
sull’altalena. Mi voltai, aspettandomi di vedere me stesso all’età di otto anni
andare su e giù dalla vecchia giostra che mi aveva costruito il papà. Ma non
c’ero, naturalmente, era rimasta solo una vecchia altalena arrugginita e
attorcigliata su se stessa. Dondolava sinistramente da sola, sospinta dalla
brezza che si alzava dall’oceano, e il suo cigolio assomigliava ad altrettante
urla di strazio, terrore e solitudine. Un disperato grido d’aiuto. Sembrava già
sapere cosa la aspettava. Una volta, attorno a lei, c’erano erba e fiori
colorati e profumati. Ora c’era solo spoglia terra brulla e qualche ciuffo
d’erba qua e là. E una rosa, una sola, nera e appassita. Sullo sfondo, una
staccionata abbandonata a se stessa, con molte delle assi spezzate e mai
riparate. Una volta ci tenevamo, a quel giardino, lo curavamo e lo mettevamo in
ordine. La mamma, da quando era rimasta sola, sembrava invece avere lasciato
che il tempo facesse il suo corso, senza preoccuparsi minimamente di rendere
quel posto un po’ meno spettrale. Perfino in veranda, dalle fessure delle assi
di legno del pavimento, spuntavano ciuffetti di erba incolta. Che diavolo hai
fatto alla nostra casa, mamma? Ma soprattutto, come avevo fatto, quell’estate,
a non notarlo? Era impossibile che in così pochi mesi il giardino si fosse
ridotto in quelle condizioni.
E
se fosse stata la nebbia? Se la nebbia si fosse mangiata l’erba, la
staccionata, l’altalena, tutto quanto, e mia madre, sola in casa, non avesse
avuto il coraggio di uscire a ripararne i danni? Era una possibilità, in fondo
io che ne sapevo di cosa era effettivamente in grado di fare la nebbia di
Carvin Cape?
No,
quello era troppo assurdo, persino per me, persino per Carvin Cape. Molto più
probabile che, semplicemente, non mi fossi mai accorto dell’incuria del
giardino perché d’estate era tutto più luminoso e rilassato, mentre in quel
momento prestavo attenzione stupita e preoccupata a ogni particolare. Doveva
essere così, quando si ha paura il cervello è più sensibile ai dettagli e
memorizza più informazioni e più velocemente. È un meccanismo di autodifesa,
serve per affrontare meglio situazioni potenzialmente pericolose.
Prima
di suonare al campanello guardai la vecchia sedia a dondolo di legno su cui mia
madre si lavorava a maglia nelle sere estive. In quel momento stava dondolando,
sospinta del vento, facendo cigolare le assi sotto di sé. Il movimento era
ipnotico, e inquietante. Andava su e giù da sola, come mossa da un fantasma. La
fissai ancora per un po’, senza riuscire a distogliere lo sguardo, ipnotizzato
da quel movimento apparentemente senza causa.
Poi,
improvvisamente, sulla sedia comparve mia madre. Stavolta era diverso. Prima
sapevo di essermela solo immaginata, ero consapevole che si trattava di un
semplice ricordo. Adesso, invece, era reale. Era su quella sedia a dondolo sul
serio. La vidi, lì, seduta, con i ferri da cucito tra le mani, intenta a
ricavare un maglioncino da un gomitolo di lana gialla. Era lei, l’avevo
riconosciuta, ma le era successo qualcosa. Era come se le fosse stato asportato
il lato sinistro della testa. Al suo posto c’era un ammasso informe di carne
maciullata e capelli schiacciati e impiastricciati dal suo stesso sangue
raggrumato. L’occhio sinistro sembrava essere esploso, fagocitato da quelle
membra cadenti, come se qualcosa l’avesse divorato. Tutto attorno ai capelli, e
a quello che restava del suo volto, erano attorcigliate delle alghe marroni e
ancora umide. Trasalii e urlai, sobbalzando istintivamente un passo più
indietro rispetto all’essere mostruoso in cui si era trasformata mia madre. Mi
fissava, mi fissava con quegli occhi marci. Ma dietro alle membra cadenti
riuscivo comunque a scorgere qualcosa. Uno sguardo penetrante, fisso nei miei
occhi. Uno sguardo di rimprovero, di accusa. Peggio ancora, uno sguardo di
biasimo e disgusto. Mi odiava, ne ero certo. Perché?
«Che
succede?» mi chiese Frankie, girandosi verso di me.
«Io…
io… », balbettai, guardando di nuovo verso la sedia a dondolo. Oscillava ancora
avanti e indietro, ma era tornata a farlo da sola. Mia madre lì in cima non c’era
più. Naturalmente era stato solo uno scherzo della mia mente. Che mi aspettavo,
del resto? Di essere andato a Carvin Cape per trovare lo zombie di mia madre?
«Niente,
lascia perdere», conclusi allora, suonando il campanello di casa di mamma.
Aspettammo
qualche secondo, ma dall’altra parte nessuno rispose, lei non venne ad aprirci.
Così suonai una seconda, e una terza, volta. Ma ancora nessun segno di vita.
Sembrava non esserci nessuno, in casa. Il cuore cominciò a battermi forte. Dove
poteva essere andata, mia madre? Non sarebbe mai uscita di casa, a quell’ora,
in quella stagione, e col cielo che lanciava preoccupanti messaggi. Non avrebbe
mai potuto farlo, non dopo avere passato tutta la sua vita a ripetermi quanto
fosse pericoloso stare fuori di casa quando la nebbia sommergeva Carvin Cape.
Senza contare che mi aveva detto di essere gravemente malata, il che diminuiva
ancora le possibilità che fosse uscita di casa. Se non rispondeva, allora,
forse era… quella visione di pochi istanti prima… che volesse dire qualcosa,
che fosse una sorta di presagio? No, impossibile, l’avevo sentita giusto il
giorno prima. Per quanto potesse essere grave la sua malattia, non poteva avere
avuto un decorso così rapido.
Eppure,
erano passati diversi minuti senza che nessuno ci fosse venuto ad aprire.
Probabilmente, nessuno lo avrebbe fatto mai, era perciò il caso di inventarsi
qualcosa, se volevo rivedere mia madre, o, perlomeno, sapere cosa le era
accaduto.
«Aiutami»,
dissi a Frankie, perché mi era venuta un’idea che non implicasse di scassinare
la porta o rompere i vetri di una finestra della mia stessa casa. Per evitare
di rimanere chiusi fuori di casa, i miei lasciavano sempre una chiave di
riserva nel doppio fondo sotto una delle assi di legno del pavimento della veranda.
Dovevo solo ricordarmi quale fosse, e sperare che le chiavi ci fossero ancora.
La memoria non mi veniva in soccorso, del resto tutte quelle assi sembravano
uguali, ma sapevo che ce n’era una che, spinta a uno dei lati, si sarebbe
spostata, rivelando un piccolo anfratto. Sarebbe stato il posto ideale per
nascondere i miei segreti da bambino, se non fosse stato che anche i miei
conoscevano l’esistenza di quel piccolo antro magico. Mi misi allora tentoni
sul pavimento, facendo pressione su ogni singola asse, cercando l’unica che si
sarebbe spostata, e invitai anche Frankie a fare lo stesso. Di tanto in tanto
il mio sguardo si alzava, in parte anche involontariamente, verso il cielo,
sempre più scuro e minaccioso. Dovevamo fare in fretta a trovare quella dannata
chiave.
Finalmente
sotto il palmo della mia mano qualcosa si mosse, e riuscii a togliere una delle
assi del pavimento. Sotto c’era un piccolo ripiano, come una scatola segreta.
Col cuore palpitante di chi ha appena scoperto un tesoro nascosto, guardai
dentro a quel buco buio e polveroso. Appoggiata lì sotto c’era una piccola
maglietta rossa, sgualcita, piena di buchi e strappi e ricoperta di polvere e
ragnatele. Più sotto, anche un paio di pantaloncini corti con una grossa
macchia rossastra, anch’essi di misura da bambino. Chissà da quanti anni erano
lì. Non ricordavo di averli nascosti in quella botola, né la ragione per la
quale l’avessi fatto. Ma, del resto, erano passati tanti anni dalla mia
infanzia. Probabilmente li avevo strappati, o magari li avevo macchiati di
sangue sbucciandomi un ginocchio o un braccio mentre correvo in posti che mamma
avrebbe preferito non frequentassi, come i boschi in fondo alla scogliera,
vicino all’oceano. Se lei avesse saputo che ero stato là a giocare e mi ero
fatto male, sicuramente mi avrebbe rimproverato per la mia imprudenza, per cui
magari avevo nascosto lì sotto le prove della mia marachella. Ma in quel
momento non importava la ragione e l’occasione in cui avevo nascosto lì i miei
vestiti tanti anni prima, mi premeva molto di più sapere se assieme ad essi ci
fossero anche le chiavi. Rovistai tra i vestiti, arrivando al fondo della
botola, e vidi in un angolino il mazzo di chiavi che ricordavo. Per fortuna
almeno quello non era cambiato, per fortuna almeno su quello la mia memoria non
mi aveva giocato brutti scherzi.
Tornai
trionfante da Frankie, e finalmente potemmo entrare. Se l’esterno della mia
vecchia casa versava in condizioni pessime, l’interno era anche peggio. L’odore
acre e potentissimo di chiuso e di polvere fu la prima cosa che percepii,
entrando. Sembrava che le finestre e le porte di quella casa non fossero state
aperte da anni, si faceva fatica persino a respirare. Il corridoio che
accoglieva i visitatori e conduceva fino alle scale che portavano al piano
superiore, ai lati del quale si aprivano la sala da pranzo e il salotto, era
completamente spoglio. C’era solo una vecchia cassapanca appoggiata al muro,
mentre le pareti recavano gli aloni di quadri che un tempo arredavano la casa
ma ora erano stati rimossi. Dai muri pendevano lunghe ragnatele, e dappertutto
c’erano almeno un paio di dita di polvere. Accostai la porta d’ingresso del
salotto, dove ci riunivamo alla sera per leggere o guardare la televisione.
Mentre sospingevo l’anta, un grosso ragno nero e peloso ne spuntò da dietro e
corse via per rifugiarsi in qualche fessura, non prima di avere fatto una
passeggiata sulle mie scarpe. Rabbrividii ma riuscii a trattenere un grido.
Dio, quanto mi fanno schifo i ragni.
Le
finestre del salotto avevano tende e persiane completamente abbassate, e non si
vedeva praticamente nulla, benché fosse giorno. Appoggiai il dito al muro lì
dove – a memoria – avrebbe dovuto esserci l’interruttore. Schiacciai il
pulsante, ma dal lampadario al centro della stanza non uscì nemmeno il più
piccolo barlume di luce. Dannazione. Estrassi dalle tasche l’accendino e provai
a farmi strada nella tremolante e flebile luce della fiamma. Sul tavolo al
centro del salotto c’era una candela, la presi e la accesi, garantendomi così
uno spiraglio di luce leggermente maggiore. Anche il vecchio salotto sembrava
essere stato abbandonato a se stesso. Il divano aveva le molle e la gommapiuma
in bella vista, mentre la televisione era scomparsa dal tavolino su cui un
tempo era appoggiata. Una cosa era certa, comunque. Mia madre, lì, non c’era.
Ci
spostammo allora in cucina, dove c’era invece una finestra socchiusa, che
lasciava filtrare un po’ della poca luce che arrivava dall’esterno. Nel
lavandino erano ammassati piatti e pentole sporche, senza acqua, con
incrostazioni che sembravano vecchie di anni. Alcuni scarafaggi stavano
banchettando con i resti. Mi voltai e vidi che Frankie trattenne a stento un
conato di vomito.
«Sei
sicuro che tua madre abiti ancora qui?» mi domandò lui, voltandosi dall’altra
parte rispetto al lavabo traboccante di schifezze e insetti.
«Certo»,
risposi, anche se non riuscivo a capacitarmi che quella fosse proprio casa mia.
«Mamma – mi misi a urlare – ci sei? Mamma!»
Naturalmente,
le mie grida rimasero senza risposta, così proseguimmo la nostra ispezione
della casa, e imboccammo le vecchie scale di legno che conducevano al secondo
piano. A ogni nostro passo sentivamo il loro sinistro cigolio, che sembrava
quasi presagire un immediato crollo. In effetti, avevo paura di sentirmi
mancare il terreno sotto i piedi da un momento all’altro.
Ma
le scale ressero, e arrivammo indenni al secondo piano. Lì c’erano il bagno, la
camera da letto dei miei genitori e quella che un tempo era stata la mia
cameretta. Dopo che io e mio padre ce ne eravamo andati, era diventata la
stanza degli ospiti. Viste le condizioni della cucina, non ebbi neppure il
coraggio di aprire la porta del bagno. Non credo avrei perso se avessi
scommesso di trovarlo ridotto in maniera più o meno simile. Andai invece in camera
mia. Non so in quale misura fosse stata inconscia la mia scelta di lasciare per
ultima la stanza di mia madre, che a rigor di logica avrebbe dovuto essere la
prima da controllare, se era lei che stavo cercando. Avevo paura di trovarla
lì, stesa su quel letto, troppo tardi per dirle addio. Così, o me o il mio
istinto al posto mio avevano deciso di rimandare quel momento il più possibile.
E ora ero in quella che per anni era stata la mia cameretta. I poster e i
giochi non c’erano più, naturalmente, era rimasto solo un materasso con una
polverosa coperta, oltre a un armadio a muro bucato dai tarli. Ma nella mia
mente era come se tutto fosse ancora al suo posto. La mia scrivania davanti
alla finestra con vista sul giardino, da dove passavo le giornate a osservare
il dondolio ipnotico dell’altalena nei giorni di nebbia, fantasticando delle
cose brutte che avrebbero potuto stare capitando a qualcuno, da qualche parte,
in quel momento. I poster dei miei cantanti preferiti, gli album di figurine,
il completo da baseball… ricordavo tutto. Ed ero triste, perché erano tempi
andati, perché erano un’infanzia e un’innocenza perse e scomparse per non
tornare più.
Mi
costrinsi, a forza, ad andare nell’altra stanza, quella più importante, l’unica
nella quale avrei potuto trovare delle risposte.
Percorsi
i pochi metri di corridoio che separavano camera mia da quella dei miei
genitori come se fossero decine di chilometri, poi, finalmente, aprii la porta.
E una risposta la ottenni. Mia madre non c’era. Non era in casa e non avevo
idea di dove fosse andata, né di come avesse fatto a spostarsi.
Il
letto era fatto, perfetto, ma non c’era nessuno sopra di esso. Tutt’attorno, il
caos. Fogli e vestiti per terra, sporcizia e confusione. Le ante dell’armadio
erano aperte, e dentro erano rimasti solo alcuni vestiti da donna. Allo stesso
modo, anche i cassetti erano aperti, alcuni scaraventati a terra e strabordanti
di calzini e mutande, messi a soqquadro, come da qualcuno che cercava qualcosa
e aveva una fretta dannata di andarsene. Se non fossi stato certo che così non
era stato, avrei giurata che quella fosse la scena di un crimine, o almeno di
una perquisizione.
Frankie
prese in mano una cornice appoggiata al comodino a fianco del letto. Dentro
alla cornice c’era una fotografia, che raffigurava un uomo e una donna
abbracciati e felici.
«Ehi,
tuo padre ti assomigliava davvero molto… Sembra di vedere te più giovane di
qualche anno, cazzo, siete praticamente identici», mi disse Frankie, osservando
l’immagine nella cornice, riappoggiandola poi al comodino del letto di mia
madre.
«Sì
sì, è vero», risposi sbrigativamente io, senza degnare di uno sguardo, né
prestare la minima attenzione alla foto. La mia testa era altrove, le
preoccupazioni, e le priorità, erano altre, in quel momento, rispetto alla
nostalgia dei tempi andati.
Era
chiaro come il giorno. Mia madre lì non c’era. Dov’era andata, ma, soprattutto,
cosa la aveva spinta ad uscire? L’unica spiegazione che mi potevo dare a
proposito delle condizioni igieniche devastanti di casa mia era che mia madre
fosse stata costretta a letto da lungo tempo e quindi la casa fosse andata in
rovina. E allora, perché adesso non c’era? Perché e come se ne era andata?
Queste domande mi inquietavano, ma mai quanto l’unica risposta che fossi in
grado di darmi. Dovevamo cercarla, trovarla e scoprirlo, prima che le accadesse
qualcosa. Lei era là fuori da qualche parte, e noi saremmo andati a cercarla.
Forse aveva deciso di farla finita, di essere lei a decidere come e quando la
sua vita avrebbe dovuto giungere a termine, non il caso o una stupida malattia.
E, se aveva preso questa decisione, le scelte più probabili erano due: o
gettarsi dalla scogliera, o scendere giù, nella zona bassa del bosco, e
consegnare il proprio corpo alla violenza dell’oceano e delle sue onde. Io
dovevo anticiparla, non potevo permetterle di togliersi la vita. Almeno volevo
darle un addio.
Scendemmo,
sapendo già cosa c’era da fare. Misi piede sulla veranda all’ingresso, come
faceva lei tanti anni prima, e guardai verso l’altalena cigolante. Dondolava
ancora, ma non era più solo il vento a sospingerla. Sopra c’era un bambino, con
la testa china, che si spingeva stancamente su e giù. Ma non era semplicemente
un bambino. Ero io. Lo guardai in faccia, stupito, e riconobbi il mio volto, o
meglio, il volto che avevo a otto anni, quando ancora abitavo in quella casa e
giocavo con quell’altalena. Era… era semplicemente impossibile. Doveva
trattarsi di un’altra visione, come quella di poco prima, quando avevo visto
mia madre morta. Erano quelle le cose strane che accadevano nella nebbia di
Carvin Cape? Apparivano dal nulla i fantasmi dei vivi?
L’io
seduto sull’altalena alzò lo sguardo da terra e guardò verso di me, verso l’altro me, quello del presente. Mi
vide. Sembrava preoccupato, spaventato da me. Mi voltai verso Frankie, che
stava chiudendo la porta di casa. Non persi nemmeno tempo a dirgli qualcosa,
tanto sapevo che lui non avrebbe visto nulla. Volsi nuovamente lo sguardo verso
l’altalena, ma di me non c’era più traccia. Il bambino era scomparso e
l’altalena dondolava nuovamente da sola, proprio come nei giorni di nebbia di
tanti anni fa. Non riuscivo a spiegarmi la presenza di quel bambino, ma cercai
di non pensarci, per quanto ciò fosse possibile. Ora dovevo solo trovare mia
madre, al resto avrei pensato dopo.
Sapevo
che dovevamo andare, e sapevo anche dove. L’unica cosa che non sapevo era perché lo sapevo.
Diressi
il mio sguardo verso il bosco oscuro, e, poi, più in alto, in direzione del
cielo. La nebbia stava arrivando, e noi stavamo per andarle incontro.
Non
m’illudevo di poter anticipare la nebbia sul tempo. Nonostante questo, cercavo
di mantenere il ritmo del mio passo il più veloce possibile, quasi a
convincermi che fosse possibile trovare mia madre prima di essere inghiottiti
dal grigio.
Se
le mie supposizioni erano esatte, e mia madre stava cercando di togliersi la
vita prima che se ne andasse da sola dal suo corpo, il primo posto in cui
cercare era la parte bassa della scogliera, dove la terra si trasformava
lentamente in oceano, e le onde trasportavano via tutto ciò che osava invadere
il loro legittimo territorio. Se invece si fosse gettata dalla cima della
scogliera… be’, in quel caso eravamo già in ritardo, e non l’avremmo mai
trovata. Forse avremmo rinvenuto una sua scarpa, come era stato per la madre
del piccolo Jimmy McFarland, o forse l’oceano si sarebbe portato via anche
quella.
Nonostante
questo, ero determinato a trovarla, e certo che ci saremmo riusciti. Una cosa
non mi convinceva ancora del tutto, riguardo a quella teoria: perché mai mia
madre mi aveva chiamato per andare da lei a darle un ultimo saluto prima che la
malattia se la portasse via se poi aveva deciso di suicidarsi senza nemmeno
aspettare il mio arrivo? Eppure, non potevo spiegare in altra maniera la sua decisione
di uscire di casa proprio mentre la nebbia stava per arrivare. Di questo,
almeno, cercavo di convincermi, mentre entravo nel bosco assieme a Frankie, e i
primi accenni di foschia si mostravano davanti ai miei occhi. Se tutto quello
fosse stato inutile, se non avessimo trovato mia madre… no, non ci volevo
nemmeno pensare.
Se
la paura è uno dei sentimenti più potenti e antichi dell’essere umano, e ci
blocca e ci consegna a un futuro fatto di rimpianti, a volte ci sono cose che
sono in grado di batterla, di metterla in secondo piano. La volontà, la
determinazione, l’istinto, l’amore. Questo spiegava il perché in quel momento
io ero lì, a camminare, forse a correre, nel bel mezzo del bosco attorno a casa
mia, nonostante la nebbia stesse per arrivare e ricoprire tutto il villaggio
col suo mantello fatto di cose strane, cose brutte.
Era
incredibile che dentro a quel bosco ci fosse così tanta oscurità sebbene fosse
ancora pomeriggio. Del resto, il cielo era completamente grigio, la luce era
solo un lontano ricordo dei giorni estivi, come sempre, a Carvin Cape. Con
l’arrivo dell’autunno, il sole salutava il villaggio per non farsi più rivedere
fino ad almeno i primi giorni di primavera.
Nonostante
il buio, io mi muovevo con discreta disinvoltura tra alberi e radici, quasi a
memoria, come se in quel bosco ci andassi tutti i giorni. In realtà, non
ricordavo di essere mai arrivato fino a lì, da bambino. Mia madre non voleva,
quella era una zona pericolosa, diceva. Era facile cadere, slogarsi una
caviglia tra le radici, o, peggio ancora, perdersi. E lì nessuno mi avrebbe
trovato, mi assicurava. E ancora più proibito era arrivare sino alla piccola
spiaggia di scogli che si inabissava fin dentro l’oceano. Quella zona era
assolutamente off-limits, non avrei
mai dovuto osare avvicinarmici. Se fossi caduto in acqua, non ne sarei mai più
uscito, minacciava mia madre, e ogni volta che uscivo di casa mi rammentava
quali fossero i luoghi che potevo e non potevo frequentare. Così io non c’ero
mai andato, almeno così mi sembrava di ricordare. Eppure, dal mio passo sicuro
e veloce si sarebbe detto che conoscessi quella zona alla perfezione.
Certo,
non si poteva dire lo stesso di Frankie, che incespicava incerto e goffo,
intimandomi di andare più piano, altrimenti mi avrebbe perso di vista e si
sarebbe fatto del male. Ma non c’era tempo, sia perché la vita di mia madre
avrebbe anche potuto essere legata ad un filo sottilissimo, sia perché la
nebbia stava per calare su di noi.
Guardavo
a terra e vedevo, sospinta dal vento, una leggera foschia, simile al fumo di un
fuoco, salire dal terreno, come se fosse il respiro del manto di foglie gialle
e secche che lo ricoprivano. La sentivo salire tutta attorno al mio corpo,
attaccarsi alle mie caviglie, aggrovigliarsi attorno ad esse per poi
arrampicarsi da lì su per le gambe. Una stretta invisibile e quasi
impercettibile che mi legava e presto mi avrebbe sommerso.
La
visibilità si era già ridotta, e la brezza che spirava anche tra gli alberi
rendeva visibile a occhio nudo il movimento della nebbia e il suo lento arrivo.
Finalmente, arrivammo in fondo al bosco. Il terreno declinava dolcemente su una
piccola radura fatta di rocce, all’estremità della quale l’oceano s’infrangeva
violentemente con le sue onde. Un salto di pochi metri, e sotto l’acqua, avida
e vorace, che sbatteva contro la roccia e s’inerpicava in su, fino alla sua
estremità, bagnata dagli schizzi delle onde più alte. Eravamo a una decina di
metri di distanza, ma sentivamo le gocce d’acqua bagnarci la faccia, mentre
l’odore del mare e il sapore salato della salsedine ci penetravano fin sotto la
pelle. Mia madre aveva ragione, ora capivo perché non voleva che ci andassi. Lì
in fondo c’era qualcosa d’inquietante, lo si poteva percepire, lo si poteva
respirare. C’era qualcosa di malvagio, in quel luogo, e avrei voluto davvero
tornare su per il bosco e scappare a gambe levate, per poi chiudermi in casa,
al sicuro.
Ma
se ero lì, c’era un motivo. Dovevo trovare mia madre, a tutti i costi. Guardai
verso le alte scogliere che circondavano quella radura, sulla cima delle quali
c’era anche casa mia, il giardino, l’altalena. Pareti di roccia liscia che
salivano dritte come tanti incisivi piantati nelle gengive del mondo per almeno
un centinaio di metri. Viste da lì sotto davano un senso di oppressione che
toglieva quasi il fiato, mentre il rumore delle onde che si abbattevano contro
la roccia suonava come una minaccia, il grido della natura che ci intimava di
allontanarci da lì, finché eravamo in tempo. Una cosa era certa: se la mamma si
era tuffata da una di quelle cime, di lei sarebbe rimasto davvero poco, solo
qualche pezzetto di carne maciullata trascinato via dalle onde e dai pesci.
A
dispetto di quanto avevo sperato, lì lei non c’era. Stavo quasi per darmi per
vinto, ascoltare le parole dell’oceano, quell’acqua che sembrava fumare mentre
un sottile velo di nebbia la ricopriva, quando, voltandomi sulla mia sinistra
vidi di nuovo quel bambino. Me stesso all’età di otto anni. Allora un giorno
c’ero stato per davvero, lì in fondo.
Stava
entrando in una piccola baracca. Lì, nascosta a metà tra il bosco e la roccia,
c’era una piccola casetta di legno, e il mio “altro” ci si stava intrufolando.
Forse era un segnale, forse stava indicandomi la via da seguire per trovare mia
madre.
La
baracca in cui era entrato il bambino era di pochi metri quadri, costruita
sotto le fronde degli alberi, con le pareti in legno, le finestre senza più
nemmeno un vetro integro e l’aspetto cadente. Sembrava una rimessa per gli
attrezzi. Forse mia madre era lì dentro. Ci avvicinammo, ed entrammo.
Aprii
con mano incerta la porta della rimessa, che era socchiusa e incrinata,
appoggiata su un unico cardine. Quando la sospinsi, emise un cigolio sinistro,
che mi fece pensare che l’anta si sarebbe staccata, cadendo a terra. Invece non
accadde nulla, e rimase appesa in quell’equilibrio quanto mai precario.
L’odore
della salsedine e dell’oceano, all’interno, era fortissimo. Era un odore che mi
era stranamente familiare. Quasi troppo familiare. Lassù in cima, a casa mia,
nel giardino, il sentore di oceano non era così marcato, era più come qualcosa
di latente, di cui percepivi la presenza ma al contempo la sentivi lontana.
Eppure, mi sembrava di avere già assaporato quell’odore, esattamente quello, come se fossi già stato in quella stanza, come
se ci avessi vissuto, in un certo senso. Ma quando, e come? Non era
assolutamente possibile.
Passai
in rassegna, con uno sguardo rapido, l’unica stanza della baracca. Il mio io da
bambino non c’era più. Eppure ero certo fosse entrato proprio lì, non me lo ero
sognato. Poi ripensai all’immagine di mia madre con la testa sfregiata e a come
era scomparsa in un secondo. Era pur sempre una visione, no? Non c’era nulla di
strano se non seguiva le normali leggi della fisica. Del resto, quel bambino
non esisteva. Non più, perlomeno.
Il
bambino non c’era, d’accordo, e nemmeno mia madre. Ma c’era comunque qualcosa
d’interessante e insieme spaventoso, in quella stanza: sapevo che non ero lì
per caso. Quel posto mi era terribilmente familiare, in una maniera che non
potevo spiegare e spiegarmi. Mi fermai a fissare quelle pareti cadenti e
ricoperte di alghe, quel legno marcito in anni di esposizione alle onde
dell’oceano, quei pochi elementi di arredamento che riempivano la stanza,
quella rete con sopra un vecchio materasso umido e ingiallito, e, sì, persino
quelle strane cinghie di cuoio che erano legate attorno al materasso. Sapevo
che c’era una parola francese che esprimeva alla perfezione la sensazione che
provavo davanti a quella scena. Una sensazione di già visto, la certezza di
essere già stato lì e di avere già visto quella stessa scena in passato. Déjà vu, ecco qual era la parola. Come
se in quella rimessa io ci fossi già stato, anche se non ricordavo né perché né
quando. Improvvisamente ne fui certo, era qualcosa di più di una semplice
suggestione. Non era la prima volta che entravo lì dentro, e in quella stanza
era successo qualcosa. Qualcosa di strano. Qualcosa di brutto, probabilmente.
Quella
tremenda sensazione di déjà vu mi
tormentava, soprattutto perché non riuscivo a capire quando fossi già stato lì.
Perché mai avrei dovuto andare in un posto così orribile, sporco, con un fetore
al limite del sopportabile, in una posizione pericolosa, isolato da tutto e da
tutti, dove nessuno mai avrebbe osato venire a cercarmi, tantomeno in un giorno
come quello? E a cosa servivano quelle inquietanti cinghie di cuoio, fissate
alla rete, che abbracciavano tutto il materasso?
Mi
guardai tutt’attorno, per cercare nuovi particolari che mi potessero
rinfrescare la memoria. Trovai, sul pavimento, un paio di jeans da bambino
strappati e sporchi di terra. Mi chinai per raccoglierli, ma li lanciai via con
un grido quando un granchio sbucò fuori da una delle pieghe dei pantaloni. Il
cuore mi batteva all’impazzata. C’era qualcosa di sbagliato, lì dentro. Dovevo
andarmene assolutamente. Avevo paura, e una terribile sensazione si era
impadronita di me. Sentivo la testa pesante e facevo fatica a respirare, ma
ancora di più a pensare. Il rumore del mare in sottofondo, quell’odore acre, la
sensazione di sale e umidità sulla pelle e su per le narici… mi stavano
togliendo lucidità, non ce la facevo più a stare in quella stanza, dovevo
assolutamente fare qualcosa.
Poi
la vidi. Mia madre. Era lì davanti, ferma, immobile. Mi stava spiando da dietro
a una finestra della casa. Mi osservava, sembrava spaventata, aveva negli occhi
odio e rabbia. Ma anche rassegnazione. Percepii tutto questo in un attimo, una
frazione di secondo, perché subito dopo lei non c’era più. Non appena si accorse
che l’avevo vista, infatti, scattò di corsa, scappando via con la velocità di
una centometrista.
«Ehi!
Eccola! Mamma!» gridai.
«Cosa?
Dove?» mi domandò Frankie.
«Era
lì dietro… ma… non l’hai vista?» gli chiesi.
«No,
io… non ho visto nessuno», rispose lui.
«Non
importa, seguimi», aggiunsi io, uscendo di corsa dalla porta della baracca.
Appena fuori, mi guardai attorno, per cercare con lo sguardo mia madre. Poi la
vidi. Stava scappando verso il bosco, in direzione di casa nostra. Correva,
veloce, inerpicandosi su per la ripida salita tra gli alberi. Non sembrava
affatto malata, anzi, a dirla tutta non l’avevo mai vista tanto in salute.
«Eccola!»
esclamai nuovamente, indicando il punto verso il quale mia madre stava
fuggendo.
«Ma
dove?» mi domandò ancora Frankie, guardando in quella direzione.
«Ma
insomma, sei cieco?!» brontolai, un po’ spazientito. Ma non era il momento di
litigare, dovevamo raggiungerla, e capire che diavolo stesse combinando. Così
ignorai la domanda di Frankie e cominciai a inseguire mia madre. «Dai, andiamo,
muoviti!»
Nella
foga dell’inseguimento e dell’improvvisa comparsa della mamma, non mi ero
nemmeno accorto che l’oceano stava sputando verso di noi una fitta coltre di
nebbia, che saliva verso l’alto, arrampicandosi su per le rocce delle scogliere
che circondavano il golfo, avvolgendo la baracca di legno, penetrando al suo
interno dalle finestre rotte e dalla porta d’ingresso distrutta. E ora l’aveva
inghiottita, e con essa anche noi, avvolgendoci nella sua essenza umida e
raggelante, seguendoci e accompagnandoci come un parassita indesiderato lungo
la nostra salita verso la cima della scogliera.
La
nebbia di Carvin Cape era arrivata. E noi c’eravamo dentro.
Quando
la nebbia di Carvin Cape ti avvolge nelle sue spire, cominci a provare sensazioni
nuove, diverse, inquietanti, ma al contempo affascinanti. Le tempie pulsano in
maniera innaturale, come se la testa fosse sul punto di scoppiare da un momento
all’altro. La mente vaga in luoghi sconosciuti, ed è come se galleggiasse,
sospesa nel vuoto. Ti senti strano, forse più coraggioso, forse più libero.
Come se niente potesse fermarti, come se fossi al di sopra di tutto e di tutti.
Anche i suoni si amplificano: eravamo quasi arrivati in cima alla scogliera,
nel giardino di casa mia, ma riuscivo a distinguere ancora chiaramente il
fragore delle onde che s’infrangevano contro gli scogli. La mente si apre, come
se solo nella nebbia potessi vedere le cose che mi erano rimaste nascoste fino
a quel momento, i ricordi offuscati che pian piano si facevano più chiari e
cominciavano a riaffiorare.
Arrivammo
in cima in pochi minuti, nonostante la ripida salita tra i boschi immersi nella
fitta nebbia che aveva ricoperto tutto. Il giardino davanti a casa mia si
distingueva appena, inghiottito dalla foschia e dal grigio. Era uno scenario
famigliare, spiato centinaia di volte da dietro alle tende della finestra di
camera mia. Scorgevo a malapena i contorni della villetta di mia madre, gli
alti muri bianchi e il tetto nero che emergevano sinistri dalla coltre di
nebbia. Lì davanti, dove doveva esserci il giardino, si scorgeva vagamente la
linea della montatura dell’altalena, le cinghie che la sorreggevano si erano
intrecciate, e il seggiolino dondolava ancora, anche se il bambino che vi avevo
visto sopra prima di andare giù, alla rimessa in fondo al bosco, non c’era più.
Non era tornato. Non sarebbe mai più
tornato. Ma questo io lo sapevo bene. Lo sapevo, ora.
L’iPhone
di Frankie squillò. Lui lo estrasse dalla tasca, e iniziò a muovere rapidamente
le dita sullo schermo, per rispondere al messaggio. Me ne accorsi, anche se il
suo profilo era perso nella foschia, sfumato e lontano, benché fosse al mio
fianco.
Ci
avvicinammo ancora al giardino, e io scrutavo attorno a me per cercare mia
madre. Non la vedevo ancora, ma forse adesso sapevo dove trovarla.
L’iPhone
di Frankie squillò una seconda volta. Un altro messaggio. Lui lo guardò
distrattamente, ma stavolta sembrò sorpreso da ciò che aveva letto sullo
schermo. Si capiva persino in mezzo a quel grigio lattiginoso, che qualcosa non
andava.
«Che
succede? - gli chiesi, mentre rimetteva in tasca il cellulare – Chi era?»
«Eh?!
Ah… be’… no, niente… una cosa di lavoro», farfugliò, imbarazzato. No,
imbarazzato non era la parola giusta. Diciamo, preoccupato.
«Già,
il lavoro… Una bella scocciatura… non ti lasciano mai in pace», commentai io,
abbozzando un sorriso. Forse era un ghigno, ma di certo Frankie non lo notò,
vista la nebbia che poneva un sottile ma impenetrabile velo tra noi due. Lui
non rispose, ma annuì, almeno così mi parve di scorgere.
Intanto,
udii per la terza volta la suoneria dei messaggi del cellulare di Frankie. Lui
lesse rapidamente l’sms e rispose velocemente, per poi rimettere
frettolosamente l’iPhone nella tasca dei pantaloni.
«Certo
che sei davvero indispensabile, per i tuoi capi», commentai io, sogghignando
ancora.
«S…
sì – balbettò Frankie, con la voce sempre più incerta –. Deve essere così».
Davanti
a noi, immersa nel grigio, si vedeva solo lei, solo l’altalena che mio padre mi
aveva costruito quando ero bambino… Cioè, sarebbe meglio dire l’altalena che io
costruii a mio figlio, prima che nella nebbia di Carvin Cape cominciassero ad
accadere per davvero cose strane, cose brutte, prima che quella sciocca
superstizione che da secoli si tramandava di padre in figlio in un antico borgo
di pescatori – una superstizione che parlava di mostri misteriosi che si
aggiravano nella nebbia per rapire i bambini e portarli nel mondo parallelo in
cui vivevano – divenisse realtà.
Un
quarto squillo. Un’altra, velocissima, risposta di Frankie.
«Dovresti
metterlo silenzioso – commentai –. Qualcuno potrebbe sentirti».
Stavamo
andando verso la scogliera. Stavamo andando verso la scogliera di fianco al
giardino perché avevo trovato mia madre. Era lì, sull’orlo, che ci dava le spalle,
avvolta a braccia conserte nella nebbia, intenta a scrutare l’oceano e le sue
onde che s’infrangevano sulle rocce. I suoi lunghi capelli scuri erano sospinti
dal vento e le si fermavano sul volto.
Ma
non la chiamai. Non subito. Prima dovevo parlare con Frankie.
«Sai,
se lasci squillare il tuo cellulare di continuo, poi chi è con te diventa
curioso, non sei d’accordo?» gli domandai.
«I…
immagino sia così», rispose, con un brivido che si poteva percepire nettamente
nel tono di voce.
«Ecco,
allora io vorrei che tu mi facessi leggere i messaggi che ti sono arrivati. In
fondo siamo amici, non ci sono segreti, tra noi, non è vero?»
«Non…
non credo che ti possano interessare».
«Come
posso stabilirlo se non li leggo, prima?» incalzai, con voce amichevole e pacata.
«Io
non… » provò a dire Frankie, ma lo afferrai alle spalle, lo strattonai
violentemente e lo spostai, mettendomelo di fronte.
«Dammi
quel cazzo di cellulare, d’accordo?» gridai, con tutta la voce che avevo in
gola. «Giuro su Dio che te ne pentirai, se non mi dai immediatamente quel
cellulare di merda!»
Frankie
ebbe un sussulto, e indietreggiò di qualche passo, avvicinandosi a mia madre,
che ancora stava scrutando nel vuoto, senza scomporsi minimamente di fronte a
tutto quel trambusto.
«D…
d’accordo, eccolo… ma non ti arrabbiare, sono sicuro che lei si sta
sbagliando», si arrese Frankie, porgendomi il suo iPhone con mano tremante.
Gli
strappai il cellulare di mano e lessi tutto lo scambio di sms tra il mio amico
e il suo misterioso interlocutore, quella chiacchierata che sembrava averlo
tanto turbato.
Il
mittente era Stephanie, la donna con la quale convivevo da un anno e mezzo
circa.
«Ah,
e così te la fai con la mia ragazza?» esclamai.
«No!
No! Certo che no!» si affrettò a rispondere, preoccupato, anche se nella sua
voce c’era come un lontano accenno di sollievo. Poi io mi misi a ridere.
«Ovvio
che no… non lo faresti mai, lo so – commentai, divertito –. Ma vediamo cosa
abbiamo qui», continuai, scorrendo con il dito i messaggi. Iniziai a leggere:
Alle ore 19.34 Stephanie scrive:
“Sai dov’è Mark? Sn tornata a casa ora dal congresso di quest
settimana e lui non c’era… Non mi risp al cell, sono un po’ preoccupata. Dimmi qualcosa
appena puoi, ok? Grazie, un bacio”
Alle ore 19.36 Frankie scrive:
“Siamo a Carvin Cape, siamo venuti a trovare la madre di Mark, dice che
sta male. Ora la stiamo cercando, si è persa. Stiamo andando su e giù x queste
scogliere da tutto il giorno. Mark sembra preoccupato x la nebbia, è un po’
strano… Ma te lo sapevi che eravamo qua?”
Alle 19.37 Stephanie scrive:
“In effetti no. Che diavolo ci fate, lì? E poi… che vuol dire che
siete andati a trovare sua madre?!!? Lo sai che è morta di parto quando è nato
Mark, no?”
Alle 19.38 Frank scrive:
“Morta?! Che cazzo stai dicendo? Mark chi diavolo veniva a trovare a
CC ogni estate, allora?”
Alle 19.41 Stephanie scrive:
“Suo figlio e la sua ex moglie. Al cimitero. Suo figlio è stato rapito
e ucciso a Carvin Cape uno di quei giorni di nebbia, sua moglie si gettò dalla
scogliera… x il dolore, credo. Non ne sapevi nulla? Che ti ha detto Mark? Mi
stai preoccupando con sta storia. Tornate a casa, x favore”
Alle 19.42 Frankie scrive:
“Ma da quanto se ne è andato da CC? Non era un bambino quando l’ha
lasciata?”
Alle 19.43 Stephanie scrive:
“Cosa stai dicendo? Si è trasferito a Edimburgo quando la sua famiglia
è stata sterminata, ma è stato 3 anni fa”
Alle 19.44 Frankie scrive:
“Come 3 anni fa?! Non erano 30?!?”
Non
parlai. Non commentai quello che avevo appena letto. Lanciai solo l’iPhone in
direzione di Frankie. Del resto, non avevo tempo per quelle sciocchezze, avevo
appena ritrovato la persona che stavo cercando e che non vedevo da anni. Le
parlai.
«Gretta»,
dissi.
Frankie
si guardò attorno, disorientato e tremante. Lui non l’aveva vista. Ovvio.
«Perché
lo hai fatto, Mark? – mi domandò mia moglie, singhiozzando, senza nemmeno
voltarsi – Perché anche lui? Perché non hai saputo fermarti nemmeno davanti a
nostro figlio?»
«Lo
sai… la nebbia… il buio… Eppure tu glielo avevi detto, di non uscire, quando
fuori c’era la nebbia»
«Già,
lo so. Quella volta non mi ha ascoltato, vero?»
«No.
Non lo ha fatto. Era ancora sull’altalena, quella che gli avevo costruito io.
D’altra parte, nemmeno tu ti sei ascoltata.»
«Lo
sapevo, sai? Lo sapevo quello che facevi, là alla rimessa. Ma avevo paura di
te. E poi mai avrei creduto che avresti potuto toccare anche Mikey. Non se io
lo avessi protetto e tenuto in casa durante quei giorni».
«Già,
mi spiace, sai, devi credermi… Non avrei voluto. Ma è stato più forte di me».
«Certo,
facile così. Posso sapere quanti sono stati? Anche se non credo faccia
differenza che io lo sappia o meno, ormai… I bambini che sono scomparsi in
questi anni, nei giorni di nebbia, sono stati tutti quanti opera tua? Li
portavi tutti là in fondo, nella baracca in riva all’oceano?»
«Già…
» ammisi, abbassando la testa, con un vago sentimento di vergogna.
«Facevi
a tutti quello che oggi ti ho visto fare a Mikey, laggiù?»
Il
mio silenzio valeva una risposta affermativa. Ne valeva cento.
«Che
bisogno c’era di ucciderli, dopo avere fatto a loro quelle cose orribili? Non
ti bastava… non ti bastava… Oh, Cristo… non ti bastava scoparteli?»
Gretta
ora piangeva a dirotto.
«Non
lo so… sai… la nebbia… poi avrebbero parlato… invece… così, tutti avrebbero
pensato fosse stata la nebbia di Carvin Cape, a portarseli via, come sempre…
nessuno li avrebbe cercati… nessuno avrebbe cercato me».
«Mio
Dio… », piagnucolò Gretta, portandosi una mano alla bocca, sempre senza
voltarsi nemmeno un secondo verso di me. Meglio, forse non avrei retto il suo
sguardo accusatorio.
Mi
vergognavo un po’ di ciò che avevo fatto, forse. Ma la nebbia… la nebbia… ti
porta via, ti entra nel cervello. Quando sei in mezzo alla nebbia di Carvin
Cape, senti uno strano rumore nella testa. Un brusio, un fastidio, le tempie ti
pulsano forte. Poi, be’, poi tu sai cosa fare, tu devi farlo. Il rumore dell’oceano, il suono delle onde che
s’infrangono violentemente sulle scogliere… come fai a resistere?
Mi
avvicinai e spinsi Gretta giù dalla scogliera, per la seconda volta negli
ultimi tre anni. Proprio come fece lei allora, Frankie dondolò sul ciglio per
una frazione di secondo, poi cadde nel vuoto con un grido, più di sorpresa che
di orrore. Sprofondò nella nebbia con una domanda cui non avrebbe mai avuto
risposta scolpita sul volto e negli occhi: perché?
Mentre
lo guardavo scomparire nel nulla, consegnato come sempre al mio miglior
complice, l’oceano che divora tutti accogliendoli nel suo ventre insaziabile e
mai racconta a nessuno i suoi segreti; ripensai a quello che mia moglie diceva
sempre a mio figlio.
Nella
nebbia di Carvin Cape accadono cose strane. Cose brutte.
E
quelle cose ero io. Lo sono sempre
stato.
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