Wait for "It"

Presto vedrò il nuovo film di “It”, e mi sono ripromesso di farlo senza preconcetti, giudicando pellicola e romanzo come due opere separate, e non giudicando il primo con la lente del secondo. Perché ancora oggi è il mio libro preferito, e, stando alla campagna pubblicitaria e ai trailer del film, c’è un problema: io non ho mai considerato “It” un horror, come non lo sono molti altri libri di Stephen King che vengono derubricati come tali. 

Soprattutto la critica “alta” si appiglia a questo perché ancora non è riuscita a sdoganare del tutto uno dei più grandi autori contemporanei, considerando ancora un tabù l’ipotesi di un Nobel alla letteratura per il Re. Se c’è un autore del secolo scorso che ha retto e reggerà alla prova del tempo, che ci ha costretti a guardare nell’abisso e a vederci noi, e che ha avvicinato alla lettura generazioni di giovani che mai avrebbero toccato uno qualsiasi dei libri degli autori che normalmente vincono il Nobel, è lui. Non accadrà, e pazienza, King non ha certo bisogno del riconoscimento di qualche parruccone inchiodato a un ideale di scrittura, ed arte, che sa di muffa (in pratica, che se una cosa intrattiene le masse e non è noiosa non ha valore). Chi lo ha seguito, nei suoi tanti alti e nei suoi bassi, lo ha capito. Lo ha da tempo imparato a giudicare al di fuori dei generalmente terribili adattamenti cinematografici dei suoi romanzi, lo ha da tempo liberato dalle catene dell’essere uno scrittore horror (e quindi di bassa lega). Certo, di bassa lega sono i suoi personaggi: uomini, donne e bambine semplici, di una provincia americana dimenticata, redneck che parlano sboccati, col bicchiere di whiskey in mano e gli Ac/Dc sempre a palla sul loro pick-up, quell’America che chi ha voluto ignorare poi s’è stupito quando s’è ritrovato Trump presidente. King racconta i tanti Oliver Twist di oggi, ed è tra i più dickensiani degli autori contemporanei. C’è persino Shakespeare in lui, le premesse di “It” hanno qualcosa da “Macbeth”. E non ignoriamolo, sia Dickens che Shakespeare, al loro tempo, erano cultura popolare quanto King.

Certamente è un autore pop, anche se la sua logorrea dovrebbe spaventare (“It” è un tomo dalla mole biblica di 1400 pagine scritte fitte fitte, quale ragazzo dovrebbe aver voglia di affrontare una cosa del genere?), e il suo stile iper-descrittivo va contro ogni dettame del genere che vuole che suggerire e lasciare riempire i vuoti al lettore sia la regola aurea dell’efficacia. Avvicinarsi a “It”, il libro, comporta quindi la necessità di superare due preconcetti: quello derivante dalle dimensioni (troppo vicino a dizionari di latino, tomi universitari o altri mattoni del genere), e quello derivante dall’idea erronea che King sia – solo – uno scrittore horror. E infatti “It” non è un horror, no. È un pamphlet sull’amicizia, un romanzo di formazione, un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta in una provincia spietata, i ragazzi del Club dei Perdenti sono un’altra incarnazione di quelli di “Stand by me”. “It” è tante cose, non è un pagliaccio malvagio, e per questo il titolo è quanto di più generico possa esistere, un pronome di terza persona. “It” non è un horror ma è un racconto sulla paura, quella di cui il simbolico mostro si nutre ed usa per ferire i protagonisti. È una metafora del crescere e delle angosce che ciò porta con sé; così come “Shining” è una metafora sul pozzo nero e popolato di demoni dell’alcolismo in cui lo stesso King era sprofondato, o “The Dome” è una metafora di un mondo in cui è troppo facile dividersi tra buoni e cattivi e poi dare per scontato che i buoni siamo noi. 
“It” è la paura di crescere, di non essere accettati, di dovere affrontare la vita come una cosa seria e non come qualcosa in cui tutto sia una battuta. È la paura di non farcela, di non riuscire ad andartene da una città che ti avvelena l’anima e a lasciare degli amici che, come chi sta affogando e s’attacca alle tue gambe, non puoi più salvare, puoi solo affogare assieme a loro. È la lacerazione di dover accettare che la ragazza che ami non sarà mai tua e anzi s’innamorerà del tuo miglior amico (perché, scriveva King altrove, “l’amore non è cieco, l’amore è un carnefice con una vista estremamente acuta, l’amore è un cannibale sempre affamato. E quel che mangia è l’amicizia”). È la paura dei soprusi subiti da bulli che non denunci per timore di non essere creduto, simbolo di un mondo degli adulti e uno dei giovani che non riescono a dialogare tra loro. “It”, e nel libro è detto esplicitamente, è il sesso vissuto con angoscia, probabilmente per via degli abusi subiti in casa da chi avrebbe dovuto proteggerti, è un padre violento e il senso di vuoto lasciato da una persona importante che se ne va, di una famiglia che si sfalda. E, nella seconda parte della storia, da grandi, è la paura di non esser riusciti a lasciarsi indietro i fantasmi del passato, di avere buttato la propria vita, di non aver combinato nulla di quel che si sognava. Di aver fallito come uomini e donne. Perché se da piccolo eri parte di uno dei tanti club dei perdenti sparsi nel mondo, è qualcosa che a qualche livello ti resta dentro e anche se la tua vita adulta è migliore di così, in te ci sarà sempre il ragazzino che veniva spinto e preso in giro nei corridoi di scuola. “It” è l’innocenza che vola via, come un palloncino rosso.

“It”, nonostante la mole, è un libro che andrebbe letto due volte, da ragazzi e da adulti, proprio come vivono la storia i membri del Club dei Perdenti. Perché magari da ragazzo t’annoi nelle 200 pagine che separano un’apparizione di Pennywise dall’altra, da grande capisci che quello non era mai stato un horror, che il sangue, il mostro, erano tutte un pretesto per raccontare un quadro molto più generale, una sintesi del meglio e del peggio che possiamo dare nelle nostre vite. Quando capisci che il clown malvagio che t’ha terrorizzato allora era ed è sempre stato dentro di te.  

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