La guerra dei trent'anni

Nel momento in cui gli inviti ai matrimoni stanno ormai completamente prendendo il posto di quelli alle feste di laurea, realizzi che è giunto il momento di rassegnarsi. Non hai più vent’anni, non hai più – direbbe Guccini - quell’età in cui tutto è ancora intero e hai tutto per possibilità. Nemmeno quella in cui puoi permetterti d’essere stupido davvero, se è per questo. I teenager di oggi non li capisci più, non sai come parlarci, ti sei chiesto se scaricare Snapchat fosse una via onestamente percorribile, ci hai provato, non l’hai capito e lo hai cancellato derubricandolo a una cosa stupida ma in fondo provando invidia per chi ne fa un’estensione della propria mente.
Nel frattempo cominci a renderti conto di quanto t’avessero ingannato. L’altro giorno guardavo una vecchia puntata di Friends e pensavo: tra questi giovani adulti c’è una cameriera, un attore fallito, un paleontologo, una che suona in un piano bar – cioè praticamente i mestieri meno remunerativi che riesco ad immaginare -, come diavolo possono permettersi un attico da almeno 100 metri quadri con balcone e arredamento alla moda in centro a New York? Nel mondo dell’eterno presente del trentenne, in cui esiste solo l’oggi perché al domani è inutile e pericoloso pensare, non c’è spazio per la magia e l’incanto. Per fortuna ci vengono incontro nuovi prodotti tv ideati appositamente per noi, e non a caso due delle migliori cose su Netflix si rivolgono direttamente a quell’universo di neotrentenni disorientati e insoddisfatti degli anni ‘10, che un tempo si rifugiavano nei testi di Max Pezzali: Master of none e Love.


Serie di successo perché credibili e assolutamente realistiche, perlomeno verosimili, che raccontano senza illusioni il mondo dei trentenni nell’epoca della flessibilità non per scelta ma per obbligo, della non pianificabilità di un futuro che vada oltre a come sopravvivere al fine settimana. Mode, ossessioni, abitudini, di giovani adulti che si trovano sballottati dentro un mondo che non sembra fatto per loro. Una generazione mediamente più colta di quella dei genitori, più aperta al mondo e alle sue diversità, ma intrappolata nei cliché di chi li vorrebbe essere fermi agli anni ’80. E quindi le citazioni colte, i rimandi costanti alla pop culture immersi nella quale siamo vissuti e cresciuti, gli amici omosessuali, l’indiano che parla come un newyorkese ma che tutti vorrebbero con un accento alla Apu. Un rapporto con le relazioni sentimentali caratterizzato da un generico disagio, tra delusioni amorose dalle quali a una certa età sono passati tutti ma proprio tutti, dalle modelle di Victoria’s Secret a vostra nonna; l’essere sempre la persona giusta al momento sbagliato, il perdersi davvero solo per chi non possiamo avere, il sesso occasionale, gli amici come famiglia e l’eterna divisione tra single e fidanzati che diventa dopo un po’ cronica e si traduce nell’incapacità da un lato a tornare ad accettare la fatica del compromesso e della rinuncia e dall’altro a funzionare al di fuori di una coppia. Le responsabilità, che improvvisamente piovono dal nulla senza che le avessi richieste. Il lavoro, in bilico tra i sogni che avevi da bambino e le frustrazioni della quotidianità. 
Tutte scene già viste, e vissute, da voi, nella vita reale. Senza sconti, favole o morali. Solo un eterno rincorrersi alla ricerca di un centro di gravità permanente, che magari nemmeno esiste, e va bene così.

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