La verità che ricordavo

Non si può giocare con il cuore della gente, se non sei un professionista. Lo dicevi proprio tu, Manuel, ricordi? Ed è quello che ho pensato io, come tutti quanti, credo, quando ti ho visto nella lista dei nuovi giudici di X-Factor. Che c’entri, lì? Perché? Sono domande ovvie, quasi automatiche, ma forse anche sbagliate, perché in fondo, in una realtà che è ormai un dato di fatto come i reality musicali, se si vuole che si alzi il livello della qualità bisogna che qualcuno ce la porti, no?



Il punto è che forse ci si sente strappati da quegli anni ’90/2000 da cui magari pensavamo non si uscisse vivi e invece sì, seppur acciaccati. Magari è perché così si sente definitivamente perduta ormai definitivamente quella giovinezza in cui hai masticato, digerito, fatto indigestione, di quel che chiamavamo rock alternativo italiano, di gruppi diventati quasi come amici, e allora proprio come nel finale di “Stand by me” rifletti amaro che “non ho mai più avuto amici come quelli che avevo da ragazzino, ma, Gesù, chi mai li ha?”. Qualche giorno fa mi sono trovato casualmente ad ascoltare “Cenere” dei Marlene Kuntz a distanza di anni dall’ultima volta che era passata dalla rotazione del mio iTunes – già che le epoche del Corallo o del Tempo Rock sono sepolti tra ricordi lontanissimi -  e quella frase là, “piange forte il mio cuore perché non ti so scopare”, m’ha fatto ridere, m’ha fatto quasi tenerezza, in realtà. Come mille aforismi dipinti nei bagni di scuola o scolpiti sui nostri diari, frasi criptiche a cui sforzavi di dare chissà quali significati profondi, ma che ad ascoltarle con l’orecchio della disillusione ti rendi conto dell’amara realtà: inutile cercarci chissà che interpretazione, il più delle volte non vogliono dire proprio un cazzo.
Io però agli Afterhours ho voluto bene davvero, anche se non li ascolto sul serio da anni, e sembra impossibile dopo lunghi periodi in cui ne vedevo un concerto ogni tre mesi, tipo. Ho voluto bene ad “Hai paura del buio?”, che è stato uno dei primi album che ho ascoltato ed amato per intero (e di cui posso parlare senza vergogna, ché tutti abbiamo scheletri nell’armadio). Lo scoprii postumo di un paio d’anni, in quel luogo vagamente mistico e iniziatico che fu per noi la fonoteca di Pavullo. Dopo una trentina di secondi di rumori e brusii che mi avevano lasciato un po’ perplesso e spiazzato, ecco che arriva la seconda traccia. L’intro strumentale non mi aveva per nulla preparato a ciò che mi aspettava. Le prime parole pronunciate in quel disco, con una voce strana, distorta, non umana, erano una bestemmia, la prima che sentivo in una canzone vera. Una cosa banale e anche sciocca, se vogliamo, ma per un sedicenne le prospettive sono differenti. L’effetto fu come di un pugno allo stomaco, e da lì al termine dell’ascolto di quell’album tutto quello che pensavo di sapere sulla musica, su ciò che mi piaceva, era stato spazzato via. Quella era tutt’altra roba, quello era un altro mondo. E se le canzoni magari non possono cambiarti davvero la vita, forse a volte, qualche rara volta, sanno insegnarti cosa chiedere ad essa. “Voglio una pelle splendida” m’ha insegnato che non è che tutto debba essere per sempre o aver valore universale o essere la cosa più importante del mondo, che a volte desiderare semplicemente “un pensiero superficiale che renda la pelle splendida” non è un peccato mortale perché magari un finale che non faccia male te lo meriti anche tu, no? O m’ha insegnato ad accettare il fatto che notti a scegliere le carte che giocheresti le passerai anche quando chi ti sta davanti le sue carte le ha tutte scoperte, e a smettere d’illuderti che il joker rida per te quando invece ha sempre riso di te (semi-cit.).

 Quindi, pazienza se ora dirai sì o no davanti all’ennesima cover di Beyoncè. Pazienza se il tuo giudizio conta ma poi tanto decide il popolo, e quando decide il popolo finisce che ti trovi con Lorenzo Fragola. Per un’ultima volta diremo addio a Bombay, passando da Varanasi.

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