Contessa e l'"Aurora" de I Cani
A farla
semplice, si potrebbe riassumere la terza fatica de I Cani in un algoritmo del
tipo: ti droghi male - la tua ragazza ti molla – malinconia di tutto – paranoie
– ti droghi male. E poi via in loop e a direzione contraria. Il senso di
tristezza a palate e a tratti d’angoscia che permea tutto “Aurora” autorizza a
questa lettura immediata, ma dietro c’è qualcosa di più. È senz’altro l’album
più complesso de I Cani, che sono poi Nicolò Contessa e non è mai stato
evidente tanto quanto in questo caso che dietro a quel nome c’è una sola
persona. E più complesso anche di quanto potrebbe apparire in un primo momento,
con quel pianoforte e le tastiere elettroniche che tracciano basi musicali
piuttosto basilari. Basilari ma non banali, e ancora una volta la vera forza
sono i testi, in questo disco più universali, letteralmente, visti i continui
riferimenti all’astronomia. Contessa si ridefinisce come cantautore,
smarcandosi dal mondo dell’indie italiano e non avendo paura a esibire un cantautorato
pop da piano elettrico che è una cosa piuttosto nuova e singolare nel panorama
nostrano. Un cantautore del 3.0, forse l’unico, che non ha bisogno di
scimmiottare nessun collega inglese.
I temi toccati in “Aurora” sono tanti, seppur ruotando attorno a una
disillusione di fondo e a uno sguardo disincantato a se stessi e alla nostra
umanità. In “Proto-bodhisattva" Contessa prende a prestito un termine
buddhista per parlare le principali ossessioni dei giovani adulti occidentali,
mode alimentari, droghe e sesso. “Carnivoro o vegano? Vuoi il fumo o la coca?
Vuoi il culo o la fica?”, dice. Come a dividere in due categorie gli
appartenenti allo stesso mondo. Oppure c’è l’amore, e a stupire è il modo in
cui si parli del tema più usato e abusato nella storia della musica senza
essere stucchevole o ridondante. Senza cadere nel banale e nel già sentito. “Il
posto più freddo”, uno dei brani migliori dell’album, racconta di un amore
finito, che è la cosa più vecchia del mondo, eppure al posto della retorica
strappalacrime infila uno spaccato di lacerante sincerità realista. “Nel silenzio
del bagno la luce tremenda e impietosa / perché adesso la notte è finita e la
droga è scesa / ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta / e i brividi
vengono su dalle gambe al petto / il posto più freddo è qui proprio dentro al
mio letto”. Straziante, ma
onesto. E in maniera tutta diversa ma anche qui inedita si parla d’amore pure
nel primo brano, il cui titolo “Questo nostro grande amore” dà solo l’illusione
della canonica love-song. Una storia di coppia come qualcosa da “monetizzare”,
vendendo like su Instagram per quelle foto di coccole, diritti d’autore per
film e serie tv ad esse ispirate, addirittura farne dei bond. Perché, in fondo,
“anche se non fosse amore, non per questo è da buttare”.
Poi ci sono le
ossessioni di una giovane ragazza che sogna le passerelle di moda e si scontra
contro una realtà molto meno brillante di quei riflettori, lo shock di trovarsi
dopo anni davanti a una persona che una volta era stata importante e scoprire
di non sapere cosa dirsi, il dover guardare dentro se stessi e decidere di
porre fine a preoccupazioni inutili e sopravvalutate. Fino all’ultima parola
del disco, “pure a sparire ci si deve abituare”. E che sia un messaggio ai fan?
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